la Repubblica 22/1/2014, 22 gennaio 2014
DIVERSAMENTE ITALIANO
L’amministratore delegato che esordisce: «Innanzitutto vorrei fare una postilla»; il giornalista che dice «paventare » e intende «prospettare» e «schernirsi » al posto di «schermirsi»; l’innamorato che scrive su Facebook «Vorrei baciarti sulle tue dolcissime l’abbra»; il ministro dell’Istruzione che inciampa rovinosamente su un congiuntivo; i personaggi di Corrado Guzzanti e le persone reali (conduttori, politici, mafiosi, studenti) di cui sono la parodia. Tutti loro, tutti noi: che italiano parlano e parliamo? Forse Tommaso Landolfi, grande e coltissimo scrittore, lo avrebbe definito «italiano pidocchiale», come quello che in un suo romanzo del 1939 (Pietra lunare) uno studente universitario sente usare malamente dai suoi incolti famigliari. Solecismi, anacoluti, costruzioni per analogia, proposizioni sbilenche, che incominciano in un modo e finiscono in un altro, irruzioni del dialetto o della varietà regionale, parole mal scelte e peggio accozzate.
Un po’ a sorpresa il linguista, e poeta, Enrico Testa non sarebbe d’accordo con la diagnosi. L’immagine della lingua «pidocchiale » si staglia proprio all’inizio del suo ultimo libro, ma nelle conclusioni una netta separazione viene posta fra le varianti più rozze dell’italiano del passato e quelle presenti. Queste sono sfacciate e degenerative e quello che dà il titolo al libro è invece L’italiano nascosto (Einaudi, pagg. 328, euro 20,00) e generativo. Ma per fortuna il fulcro dello studio di Testa non è la deprecazione dei nostri tempi, bensì la riconsiderazione di cosa sia stata la lingua nei tempi andati.
Secondo l’ipotesi storiografica comunemente accettata (e anzi data spesso per pacifica), il volgare italiano è stato nobilitato da Dante, pulito e codificato come lingua letteraria da Petrarca, discusso nel Rinascimento e mantenuto come lingua dei colti, a fianco del latino, sino a Manzoni e poi all’Unità d’Italia. In questo quadro la vera unificazione linguistica avrebbe dovuto attendere la televisione. Testa si rifiuta con una certa nettezza di affiancare Mike Bongiorno all’Alighieri, fra i padri della lingua italiana, ma non sovverte del tutto questo modo di vedere le cose. La sua tesi centrale è che fra l’italiano dei colti (dotto, letterario e scritto) e i dialetti del popolo (incolti, pratici, orali) sia sempre esistito un italiano comune, «per quanto rozzo, povero e variegato». Una lingua senza alcuna mira estetica, riferita a circostanze molto concrete e rivolta a un interlocutore ben identificato. Italiano di mercanti, notai, mezzadri, artigiani, monaci e soprattutto monache di cui recano testimonianza lettere, diarie, scritti autobiografici, atti, cartelli, ex voto, scritte murali. A proposito di queste ultime, si può cogliere la continuità con il presente: «Un altro segno della diffusione dell’italiano è il proliferare a Roma di cartelli infamanti: scritti, epitaffi (talvolta in versi e spesso osceni) affissi pubblicamente e anonimamente per colpire qualcuno (soprattutto i potenti) descrivendone colpe, delitti o difetti» (da Pasquino a Twitter, ogni alfabetismo fa emergere il rimosso ostile del discorso popolare).
È la lingua dei «semicolti». Nati analfabeti, sono riusciti a entrare a contatto con l’insegnamento dell’italiano, per esempio tramite le scuole religiose (Testa dedica un capitolo a catechismo, predicazione e alfabetizzazione da parte della Chiesa), e hanno frequentato i libri, a diversi livelli di fruizione (dalla lettura vera e propria alla consultazione o all’ascolto di letture ad alta voce). I popolani trecenteschi che deturpano i versi di Dante nelle novelle del Sacchetti testimoniano quanto precoci fossero i contatti fra cultura alta e supposta incultura. Nel Cinquecento gli stampatori provvedevano edizioni povere, «in ottavo» dei libri che stampavano lussuosamente e «in quarto» per il pubblico di ceto alto. Praticamente, i tascabili: «onde hora tutti possono imparare», si rallegrava il poligrafo Tommaso Garzoni nel 1587. Invisa alla Chiesa, la letteratura cavalleresca incendiava fantasie popolari.
Di questo italiano nascosto si sono accorti gli stranieri prima che gli italiani. Il primo a studiarla fu il filologo austriaco Leo Spitzer. Durante la Grande Guerra era incaricato di censurare le lettere dei prigionieri italiani: la corvée militare non lasciò insensibile l’animus del ricercatore. Le trascrisse e nel dopoguerra pubblicò un’antologia di questi campioni di lingua né colta né analfabeta. Ma già Stendhal scriveva: «La lingua scritta d’Italia è anche lingua parlata a Firenze e Roma». E Ugo Foscolo, nell’esilio londinese definiva questo italiano comune («tal quale tanto da farsi intendere») una «lingua d’espediente». Quale lingua avrebbero dovuto usare i predicatori vaganti, per parlare ai fedeli di zone lontane dalla loro nativa? Non certo il latino. E i mercanti? E le monache costrette dai superiori a mettere per iscritto le loro visioni mistiche?
Se una lingua serve per comunicare con gli altri, deve mettere in comunicazione anche l’alto e il basso della società. Il servo di Vittorio Alfieri, Francesco Elia, scriveva ai ricchi parenti dello scrittore per informarli della vita che egli conduceva nei suoi viaggi: «Abiamo fatto più miglia per indare in una picola isola deserta, dove mi fece ancora suonare molto il violino, e faceva belisimo tempo, che in diffetto di questo non so come se ne saresimo tiratti noj due soli a remare, che sul principio indava molto male...». Ma Testa trova tracce di italiano comune o «pidocchiale» persino negli scritti di «backstage» di squisiti maestri dell’italiano letterario: nelle lettere di Baldassar Castiglione al suo fattore, persino in quelle di Pietro Bembo, il più classicista dei teorici della lingua, o in quelle di Ludovico Ariosto, rigettate perché «tirate di fretta» da Benedetto Croce, e a Testa utili per il medesimo motivo. Sono le «lettere rubate» dell’italiano comune: nascosto, e sotto gli occhi di tutti.