Riccardo Arena, La Stampa 22/1/2014, 22 gennaio 2014
IL PM SOTTO SCORTA CHE NON RINUNCIA ALLA SUA NORMALITÀ
Ieri pomeriggio era di turno, perché il suo mestiere è quello del magistrato della Procura ordinaria e si è occupato di arresti in flagranza e sequestri di merce avariata. Nino Di Matteo non fa più parte della Direzione distrettuale antimafia di Palermo (ne è uscito nel 2010, dopo dieci anni) ma vive il suo personale 41 bis da ormai un anno e mezzo, da quando cioè in Procura - e a casa sua - sono cominciati ad arrivare, praticamente a fioccare, gli anonimi, che in parte lo invitavano ad andare avanti nelle sue indagini «scomode», sulle presunte collusioni tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia, nel periodo delle stragi del ’92-93, ma per un altro verso lo avvertivano dei non pochi pericoli che potrebbe correre. Descrivendo con dovizia di particolari anche i tragitti regolarmente affrontati dal pm che ora anche Totò Riina vorrebbe vedere morto «come un tonno».
Vive blindato ma non isolato, Di Matteo, e nei limiti del possibile continua a fare anche il padre e il marito: «Cerco di vivere normalmente i rapporti familiari, soprattutto - spiega - perché l’unica possibilità di continuare a lavorare è mantenere equilibrio e normalità nella vita di ogni giorno». Segue i figli, li accompagna, esce con la moglie, va al cinema. Mille precauzioni, nove uomini e tre auto blindate per ogni spostamento, la rinuncia a essere prevedibile e anche al blindato «Lince» («Mi sarei sentito ridicolo», ha spiegato) che gli era stato offerto dal Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Comitato che sta valutando l’uso del «bomb jammer» (per bloccare i telecomandi attorno a lui e prevenire attentati) e ha già messo a sua disposizione un elicottero e tre carabinieri del Gis, il Gruppo di intervento speciale: il pm palermitano è tutelato come un Capo di Stato. Gli uomini del Gis ruotano dopo brevi periodi e in tre hanno voluto farsi una foto con lui e gliel’hanno regalata, con tanto di dedica: Di Matteo l’ha esposta in bella vista, nel suo ufficio.
«Sono in forma - scherza il magistrato - nonostante tutto riesco ancora a correre». Non allo stadio delle Palme, dove corricchiava sulla pista di atletica: ora è troppo pericoloso e va nel cortile di una caserma. Da qualche tempo ha fatto una scoperta: «Il tapis roulant, un po’ noioso, ma funziona». Le minacce di Riina hanno fatto aumentare i dispositivi di sicurezza per tutto il pool: quando nei corridoi o dentro il palazzo di giustizia si spostano insieme i pm Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e l’aggiunto Vittorio Teresi è un vero e proprio corteo, quattro pm e una ventina di angeli custodi. Non ama parlare, Di Matteo, dei «suoi» carabinieri: «Per loro provo gratitudine e ammirazione per lo spirito di sacrificio e di abnegazione», ha detto ad amici e collaboratori.
Proprio alcuni carabinieri, quelli del Ros, sono al centro dei presunti accordi del ’92-93, ma Di Matteo non ha mai rinunciato ad essere seguito da carabinieri e ha difeso a spada tratta, anche di fronte ai colleghi che lo invitavano a ripensarci, Saverio Masi, il suo caposcorta, già testimone al processo contro il generale Mario Mori e che ora lo sarà pure al processo trattativa, in cui Mori è sempre imputato. Masi è stato condannato anche in appello a 6 mesi per avere falsificato la firma di un superiore in calce a un’autorizzazione all’uso di un’auto privata per svolgere le ricerche dei latitanti. Ha denunciato di essere stato ostacolato da tre ufficiali nelle sue indagini personali per la cattura di Bernardo Provenzano prima e Matteo Messina Denaro dopo. Su di lui, ora accusato pure di calunnia, c’è stato un braccio di ferro in Procura, due pm si sono rifiutati di iscrivere gli ufficiali per favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra e si sono astenuti. I tre sono stati messi lo stesso sotto inchiesta. Masi è ancora il caposcorta di Di Matteo.