Luca Bergamin, Io Donna 18/1/2014, 18 gennaio 2014
LUCA RONCONI: “COME ATTORE SAREI STATO MEDIOCRE”
Ha sperimentato testi, parole e modi di recitare. Ha dato nuove visioni e provocazioni al teatro, sempre a cavallo tra invenzione e verità. Luca Ronconi, grande vecchio dello spettacolo, celebre per le sfuriate ai collaboratori non all’altezza, è seduto nella biblioteca del Piccolo Teatro di Milano, di cui è direttore artistico dal 1999. Ti punta addosso uno sguardo penetrante; poi, però, a guardarli bene, sono occhi dolci e sereni, quelli di un uomo che sembra avere fatto pace con i demoni della vita. La porta si chiude, lasciando alle spalle le voci dei suoi giovani attori che preparano Celestina, in scena dal 30 gennaio al Piccolo Teatro, e il più grande regista italiano d’avanguardia del secondo Novecento è pronto a raccontarsi, sciogliendo il velo sui lati più intimi.
Ha iniziato recitando, diretto da Michelangelo Antonioni e Vittorio Gassman: perché non ha continuato?
Mi è sempre mancata la dose di narcisismo che serve a un buon attore. Ero timido, non mi piacevo e non pensavo di essere bello e bravo abbastanza. Diventare un mediocre non mi interessava. Poi mi sono sciolto, ho cominciato a guardare le cose con la giusta ironia. In fondo, ciò che è importante per me non deve esserlo anche per gli altri. Un distacco che fa stare bene.
I suoi spettacoli sono considerati folli.
Userei la definizione di “casi a parte”, mentre ogni attore che recita per me è “una figura a parte”. Il mio teatro non è altro che la gestione dei rapporti tra letteratura e spazi, tra soggetti diversi e spazi diversi, tra letteratura e pubblico. Un tentativo continuo che richiede molta attenzione: si tratta sempre di erigere castelli di carta.
Le manca non avere un figlio suo?
No. Non ho mai voluto e neanche potuto essere padre. Sono rimasto orfano prestissimo, mi è mancata l’idea di figlio, figuriamoci quella di padre. E secondo me non ci si improvvisa padri, si impara osservando il proprio genitore. Sto, però, lontano dalle frasi a effetto di quelli che sostengono che il teatro è stato il loro figlio: mi sembrano parole esagerate, fatue.
Molti uomini di cultura, dichiaratamente atei, in vecchiaia dicono di avere fatto pace con Dio. E lei?
Non mi sono mai posto il problema dell’essere cattolico, ma direi un’inesattezza se affermassi che, in tutto quello che succede, non esiste né una finalità, né un disegno. Mettiamola così, posso anche essere religioso, certo non credo nell’immortalità dell’anima.
Ha paura di morire?
Non direi, è una cosa che capita.
E il cinema le incute ancora timore?
Mi terrorizza ed è terrorizzato da me, nessuna produzione potrebbe reggere il mio ritmo. Quando girai Quer pasticciaccio de via Merulana per la televisione, le riprese avrebbero dovuto durare due settimane: terminarono dopo due anni. Chi potrebbe tollerare le mie incertezze?
Un grande regista per il quale potrebbe fare un’eccezione e recitare?
Tra i viventi il più grande, intenso, geniale è Roman Polanski. Se fosse ancora vivo, Pier Paolo Pasolini.
Il suo allievo più bravo?
Per non fare torto ad alcuno, dico il nome del più noto, Luca Zingaretti. Ha cominciato con me, aveva qualità, ed è giusto che abbia scelto il ruolo di Montalbano, gli ha dato fama e soldi.
Che rapporto ha con il denaro?
Ho sempre avuto le mani bucate. I soldi vanno e vengono, non sono importanti, lo si capisce subito annusandoli. Una cosa che ha cattivo odore non può essere di valore.
E il successo lo ha inseguito o è arrivato?
Non mi tange, nel senso che non credo che sia migliorativo né peggiorativo, vista l’infinita vanità del tutto.
I suoi allievi dicono che è cattivo…
No, sono perfido! So che pensano brutte cose di me quando li dirigo. Quando commettono un errore, sul momento non dico nulla, non reagisco. Diciamo che divento perfido a effetto ritardato e forse è più grave. Non sono violento, né aggressivo, come mi descrive qualcuno: si tratta piuttosto di quel tocco di seduttività che il regista deve avere per condurre gli attori dove desidera.
Qual è il suo rammarico?
Non posso più camminare, salire in collina a piedi, a osservare i panorami dell’Umbria e della campagna, accompagnato dai miei cani. Non riesco più ad andare a toccare gli alberi che amo e ai quali parlavo. Incrocio ancora le differenti varietà delle rose, ma non posso più dedicarmi alla botanica. Adoro piante e animali. In campagna ho anche gli asinelli.
Pensa che il teatro oggi sia troppo distaccato dalla realtà?
Il teatro ha sempre un rapporto ambiguo con l’attualità. Un certo teatro oggi si manifesta con lo stile della pubblicità ma è destinato a sgonfiarsi, come accadde al teatro barocco.
Ora porta in scena Celestina, scritta nel 1499: lontana dai giorni nostri...
Non troppo. In Celestina l’aggressività degenera in violenza, l’amore nell’erotismo sfrenato. Gli attori parlano un linguaggio boccaccesco, ma si sentono a disagio in questo scenario volgare. Lussuria, omosessualità, nudo… non mi sono fatto mancare niente in Celestina.