Tino Oldani, ItaliaOggi 21/1/2014, 21 gennaio 2014
RENZI VUOL FAR FUORI I PICCOLI
È soprattutto su un punto che Matteo Renzi e Silvio Berlusconi hanno trovato una «profonda sintonia» sulla nuova legge elettorale: eliminare dalla scena politica i piccoli partiti. È scontato che la loro sfida terrà banco nelle prossime settimane, in Parlamento e sui media, scontrandosi con il forte spirito di sopravvivenza che i piccoli partiti hanno sempre dimostrato di avere, dal 1948 in poi. Già il fatto che siano sopravvissuti finora, anche dopo la cancellazione del metodo proporzionale puro per le elezioni politiche (1994), induce a pensare che eliminarli non sarà affatto facile. Anzi, potrebbe accadere il contrario, e a rimetterci le penne potrebbero essere Renzi e Berlusconi. Ma andiamo per ordine, e vediamo quali sono le ragioni della sorprendente intesa tra il neo-segretario del Pd e il leader di Forza Italia.
Da tempo, Berlusconi dice che «i piccoli partiti fanno solo l’interesse dei loro piccoli leader, e non pensano all’interesse del Paese». Lui, dice, ne sa qualcosa, perché quando era premier e provò a realizzare alcune riforme importanti, in primis quella della giustizia, i piccoli partiti guidati da Pierferdinando Casini e da Gianfranco Fini (suoi alleati sia alle elezioni che al governo) gli si misero di traverso e glielo impedirono. Per questo, da quando è stato costretto a dimettersi da premier (novembre 2011), Berlusconi non perde occasione per ripetere che «gli italiani devono imparare a votare bene, e dare la loro fiducia, almeno il 51 per cento, a un solo partito». Ovviamente al suo. «Perché senza avere in mano la maggioranza assoluta, è impossibile per chiunque governare in Italia». E la maggioranza assoluta, aggiungiamo noi, ha da essere vera, e non finta, come quella che il Popolo della libertà ottenne nelle elezioni del 2008: dentro quella sigla erano stati fusi ben sette partiti, per lo più piccoli, e bastò poco per scoprire che la fusione era fallita. Dunque, è soprattutto la delusione che ora sembra spingere Berlusconi alla guerra contro i piccoli partiti.
Diverso l’approccio di Renzi. La sua esperienza di sindaco gli ha insegnato che, per governare, deve avere accanto a sé una giunta forte, composta solo da esponenti dello stesso suo partito. «Faccio sommessamente notare», ha scritto Renzi in uno dei suoi numerosi libri («Stil Novo», best Bur), «che sono l’unico sindaco in Italia ad avere una giunta tutta del Pd. Solo del Pd. Perché io credo a un Pd che sia davvero un Partito, ma che sia soprattutto Democratico, sulla base dell’esempio americano o di quello proposto da Tony Blair».
Quanto ai piccoli partiti, a dir poco gli fanno orrore. «Sono uno spreco di denaro, che segue logiche assurde» dice nello stesso libro. «Nel 2010, secondo i dati della Gazzetta Ufficiale, i 67 partiti (sessantasette? Arghh! - testuale) hanno ricevuto in tutto 221 milioni di euro. Di questi, solo una sessantina sarebbero stati spese per le campagne elettorali. Per questo, un governo che volesse essere serio, prima di mettere le mani in tasca ai cittadini dovrebbe dare un’occhiata ai bilanci dei partiti».
Di più. «Il finanziamento pubblico dei partiti va abolito per molte ragioni» sostiene Renzi. «Lo ha stabilito un referendum, che andrebbe rispettato. E va abolito perché i partiti tradizionali, nei fatti, non ci sono più. Oggi un partito dovrebbe lanciare idee, non organizzarsi come un ministero. Appartiene ai suoi elettori, non ai suoi funzionari. I partiti non devono stare nelle aziende pubbliche, perché ormai rappresentano poco più di se stessi. Sicuramente non la società, come accadeva ai tempi delle Corporazioni e delle Arti» della Firenze del Rinascimento.
Per parare in anticipo le critiche della corrente di sinistra dello stesso Pd, Renzi fa propria una definizione coniata da Enrico Berlinguer: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passioni civili zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune».
Conclusione di Renzi: «I compagni rigidi custodi dell’ortodossia, prima di scomunicarmi, almeno stavolta diano un occhio alla fonte».
Con queste premesse, è ovvio che Renzi pensi a una legge elettorale fortemente maggioritaria e bipolare, che consegni al premier gli stessi poteri di cui ha potuto godere come sindaco. Sembrerebbe un punto in comune con Angelino Alfano, ma non giova al segretario del Nuovo Centrodestra che il suo sia l’ennesimo partitino. Per questo, seguendo la logica dei grandi numeri, Renzi ha virato su Berlusconi; ma diversamente dal Cavaliere, che sembra mosso dalla delusione, il segretario Pd guarda al futuro con l’ottimismo della volontà: è convinto che, in un futuro non lontano, toccherà a lui il ruolo di premier, e vuole poterlo fare davvero. Per questo fa dire a uno degli uomini più in sintonia con il suo credo, Graziano Delrio, ministro per gli Affari regionali, che «non si fa nascere la Terza Repubblica subendo i ricatti di chi ha il 2 per cento» .
E se per raggiungere questo obiettivo ha dovuto trovare «una profonda intesa» anche con Berlusconi, che lui stesso aveva dato per finito dopo la sentenza della Cassazione, poco male. Conta il risultato, e «i compagni rigidi custodi dell’ortodossia» del Pd se ne facciano una ragione.
Insomma, una sfida nella sfida, dal risultato più incerto che mai. Non è per vedere il bicchiere mezzo vuoto, ma sono vent’anni che alcuni leader, da Berlusconi a D’Alema, provano a sopprimere i cespugli politici, senza riuscirci. Non solo i partitini sono sopravvissuti ad ogni tentativo di sterminio, ma sono stati decisivi per fare cadere governi che sembravano forti, da Romano Prodi allo stesso Cavaliere. E sono ancora numerosi: ben 67 nel 2010. Era appena quattro anni fa. E i 221 milioni che si spartirono non sembrano affatto finiti.