Alberto Mattioli, La Stampa 21/1/2014, 21 gennaio 2014
C’ERA PERFINO UN PREMIO PER I FAN ITINERANTI
L’ultimo concerto è stato il 26 agosto, a Lucerna. Ma il 14 aprile, alla Salle Pleyel di Parigi, Claudio Abbado aveva diretto Martha Argerich e i suoi ragazzi della Mahler Chamber Orchestra. Claudio & Martha fecero il Primo concerto di Beethoven da quella vecchia coppia di sodali, amici e complici che erano, come non l’avevo mai sentito e temo non lo sentirò più. Sull’ultimo accordo, lei si alzò di scatto e andò ad abbracciarlo. Duemila persone avrebbero voluto fare lo stesso, poi restarono, restammo, venti minuti ad applaudire e gridare come forsennati, che era poi il modo per sciogliere l’emozione che ancora una volta aveva portato via cuore e cervello a tutti, a quelli che il Primo l’avevano sentito cento volte e a quelli che non l’avevano sentito mai (e Le Monde, il giorno dopo: «Miracolosa, una di quelle serate fenomenali di cui ci si ricorda a lungo». Infatti...). Ci sono, scusate, non riesco a scrivere c’erano, due categorie di direttori: lui e gli altri.
I mille concerti e le opere «di Claudio» a Berlino, a Ferrara, a Salisburgo, a Lucerna, a casa di Dio. Imperdibili anche e soprattutto per chi, per colpa dell’anagrafe, non aveva fatto in tempo a goderselo negli anni milanesi, e non aveva per esempio potuto, come un celebre critico tuttora in esercizio, sentire dal vivo il suo Simon Boccanegra quarantatré volte. Per anni, e per molte più persone di quel che si pensi, seguire Abbado è stato un appuntamento fisso, una specie di caccia all’uomo musicale. C’è perfino il Cai, Club Abbadiani Itineranti, quattrocento innamorati della musica e del modo che Claudio aveva di viverla e di fartela vivere. I primi tempi davano un premio a chi nel corso della stagione aveva fatto più chilometri dietro ad Abbado: un anno lo vinse un tizio che aveva seguito lui e i Berliner sia in Giappone sia in America Latina. La presidentessa, Attilia Giuliani, girava su una macchina completa di adesivo: «I-cuore rosso-Claudio». E quando lui tornò finalmente alla Scala in cambio di un cachet in alberi per Milano, il Cai mise sui tram un cartellone: «Bentornato Claudio».
E dire che Claudio Abbado era il contrario del divo. Non assumeva pose messianiche né dittatoriali. Pensava che dirigere significasse soprattutto, come dicono i tedeschi con una parola che gli piaceva molto, «zusammenmusizieren», far musica insieme. Parlava pochissimo e intervistarlo era un tormento almeno quanto ascoltarlo dirigere era un’estasi. Le sue risposte erano soltanto tre: sì, no o – più spesso – il silenzio. Un’intervista con lui era una specie di sfida all’afasìa, quindi poco male se ne dava così poche. Si animava quando parlava delle sue passioni: il Milan, le piante, i tortelli di zucca mantovani e qualche buona causa progressista o ecologista. Un anno la sua casa discografica riuscì a portarlo a una conferenza stampa per lanciare il disco del Flauto magico appena inciso. Si presentò portando dei ciclostilati pieni di appunti sul traffico merci lungo il Brennero per spiegare quanto sarebbe stato meglio che si svolgesse su rotaia invece che su gomma. Cosa c’entrasse con Mozart, mistero; ma non ci fu verso di fargli parlare d’altro (e poco anche di questo, tanto era tutto scritto).
Con i giovani si trasformava. Nessuno come Abbado ha formato, plasmato, lanciato e portato al successo mondiale tante orchestre giovanili. Accanto ai ragazzi, tornava ragazzo anche lui. Una volta, a Ferrara, doveva fare come bis di un concerto con la Chamber Orchestra of Europe la sinfonia delle Nozze di Figaro. Loro gli attaccarono a tradimento quella del Barbiere di Siviglia. Abbado fece un salto sul podio, poi la diresse ridendo. C’è una foto che gli piaceva molto, un vecchio bianco e nero con lui giovane e Rudolf Serkin già anziano, sorridenti durante una pausa. Era lo stesso sorriso che aveva con i suoi giovani, quando facevano musica insieme. Anche negli ultimi anni, quando era sempre più magro, sempre più piccolo, sempre più fragile. Sempre più grande. Aveva raggiunto lo stato della Grazia. Si capiva che non dirigeva più per la carriera, per la critica o nemmeno per il pubblico: dirigeva per sé, per fedeltà verso la musica, perché ogni volta che si metteva davanti a un capolavoro era come se lo riscoprissimo insieme, lui e noi.
L’anno scorso, il Presidente della Repubblica Napolitano l’aveva nominato senatore a vita. Giustamente, perché pochi come lui hanno «illustrato la Patria». Che poi questa Patria non lo meritasse, lo dimostrarono le miserabili polemiche contro una decisione che onorava soprattutto chi l’aveva presa. Adesso chissà quanta retorica. Ma il suo epitaffio, molto abbadiano, lo dettò anni fa parlando del giardino incantato che aveva costruito nella sua villa in Sardegna: «Nel fondo del cuore, penso di essere solo un giardiniere». Anche Voltaire, a chi gli chiedeva cosa avesse fatto nella vita, rispondeva: «Ho piantato tanti alberi».