Sergio Romano, Corriere della Sera 21/1/2014, 21 gennaio 2014
L’ANTIFASCISMO DELLA DIPLOMAZIA IL CASO DI LUCA PIETROMARCHI
Sento il dovere, per la memoria di mio padre Luca Pietromarchi, di scrivere alcune precisazioni in merito alla sua risposta a un lettore pubblicata sul Corriere della Sera del 17 gennaio.
Mio padre divenne capo dell’Ufficio guerra economica non dopo l’intervento dell’Italia nel conflitto, il 10 giugno 1940, ma prima, alla fine del 1939 e in tale veste riuscì a parafare, nel maggio del 1940 un accordo con la Gran Bretagna, che Mussolini non volle ratificare, ma con il quale il Regno Unito avrebbe posto fine al Blocco marittimo verso l’Italia, sperando di staccarla dalla Germania.
Mio padre non fu mai capo di Gabinetto di Galeazzo Ciano. Come capo del Gabinetto Armistizio e Pace (Gabap),
dal 1941 al 1943, mio padre si occupò anche della Croazia. Ciò gli consentì, d’accordo
con altre autorità civili e militari italiane, nell’ex Jugoslavia e in Grecia, di salvare migliaia di ebrei, rifugiatisi sotto la bandiera italiana, come attestato da Daniel Carpi e molti altri autori, tra i quali Indro Montanelli sul Corriere della Sera . Quanto «all’amicizia di molti monsignori», desidero precisare che Luca Pietromarchi, ben conosciuto da Pio XII, amicissimo di Giovanni XXIII, era avversato dal Cardinale Ottaviani,
per la sua nomina come ambasciatore a Mosca, nel 1959, voluta da De Gasperi, Fanfani e Gronchi. Durante i suoi anni di Mosca, in particolare, fiorirono i
rapporti economici e culturali tra l’Italia e l’Urss sino allora negletti. È in preparazione
una biografia di mio padre, sulla base dei suoi diari, citati ampiamente da Renzo De Felice nel suo «Mussolini l’alleato».
Antonello Pietromarchi
Il caso dell’ambasciatore Luca Pietromarchi, riammesso in diplomazia malgrado gli incarichi svolti durante il fascismo, è simile a numerosi altri. C’è una lista di diplomatici che erano stati rimossi dalla Commissione centrale di epurazione ma poi tornati in servizio sulla base del principio del vincolo al giuramento allo Stato, di cui si ritenevano servitori, al momento dell’ingresso in carriera. Furono epurati ma solo temporaneamente anche alcuni diplomatici che avevano aderito alla Repubblica di Salò in quanto le loro funzioni erano state utili alla protezione degli italiani in Germania e nei Paesi occupati dai tedeschi. Del resto un analogo trattamento non è stato riservato anche ad esponenti delle gerarchie militari?
Francesco Mezzalama
Roma
Caro Pietromarchi,
caro Mezzalama,
G razie per le precisazioni a cui aggiungo tuttavia che nel libro di Luca Pietromarchi sul Mondo sovietico , pubblicato da Bompiani nel 1962, vi è una breve biografia dell’ autore in cui è scritto che fu, tra l’altro, «Capo ufficio per la Spagna, addetto al Gabinetto del ministro». Nel mio profilo di Luca Pietromarchi non vi era spirito critico, ma soltanto il desiderio di ricordare al lettore le sfide professionali di un diplomatico che ebbe incarichi importanti al ministero degli Esteri negli anni in cui la politica estera di Mussolini diveniva sempre più aggressiva. Sull’assistenza che il governatorato italiano per la Dalmazia dette agli ebrei dei Balcani con il beneplacito del ministero, ho già scritto in altre occasioni.
Alle osservazioni di Mezzalama aggiungo che la diplomazia italiana non era antifascista. Vi erano i frondisti, gli scettici, i realisti, gli opportunisti, i monarchici e i cattolici, come Luca Pietromarchi, ma gli antifascisti in senso stretto cominciarono a fare capolino soltanto nell’estate del 1943. Il recupero dei diplomatici epurati fu quindi una necessità nazionale. Se i primi governi postfascisti avessero passato in rassegna l’intero ministero, i risparmiati sarebbero stati pochissimi e forse neppure i più intelligenti.