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 2014  gennaio 21 Martedì calendario

RE GENEROSO O FLAGELLO DI DIO I DUE VOLTI DEL MITO DI ATTILA


Da una recente ricerca si apprende che «Attila» è il nome dato ad un potente tosaerba, a un robot per pulire i tetti, a un micidiale decespugliatore, a uno strumento per la diserbatura termica e ad alcuni altri utensili o sostanze nei cui manuali d’uso è scritto che servono ad ottenere una «totale e radicale devastazione». Uno stereotipo, quello del brutale sterminatore, che viene ora messo in discussione da Attila e gli Unni , un libro di Edina Bozoki che sta per essere pubblicato dal Mulino. La storia del re barbaro — nato nel 395, asceso al trono quarantenne nel 435 assieme al fratello Bleda (di cui si sarebbe liberato, uccidendolo, nel 445) e morto cinquantottenne nel 453 dopo aver attaccato l’intera Europa (o quasi) — risponde solo in parte all’immagine di violenza che ha lasciato dietro di sé. Un discorso, questo, che si può estendere all’insieme dei «barbari». Eccettuate alcune occasioni, scrive Edina Bozoki, quasi mai si è assistito «all’irruzione in massa di orde scalmanate di guerrieri». In molti casi si trattava «di movimenti diffusi, di un’immigrazione pacifica di piccoli gruppi, in altri di vere e proprie incursioni, ma mirate, alla ricerca di un bottino, in altri ancora dell’ingresso di popolazioni accettate dal potere romano». Alcuni di questi gruppi, è vero, iniziarono un «vagabondaggio armato» per i territori dell’impero; ma il loro scopo non era la conquista: cercavano solo di «ottenere introiti e provviste per mantenere le proprie truppe e le famiglie, in cambio di servizi». Quanto al numero, si stima che i barbari del V secolo penetrati nell’impero vadano calcolati in «parecchie decine di migliaia».
Tre secoli prima di Attila, l’imperatore Marco Aurelio aveva condotto (tra il 167 e il 180) campagne contro i Quadi, i Marcomanni, gli Iazigi e i Daci. Reclutò ausiliari tra i barbari e fece insediare gruppi di Germani nelle terre periferiche dell’impero (aveva addirittura in mente di creare due nuove provincie tutte per loro: Marcomannia e Sarmazia). E però fu ai suoi tempi o poco prima che si ebbe un importante cambio di percezione. Riscontrabile tra il 113, quando fu eretta la colonna di Traiano, sulla quale i prigionieri daci vengono raffigurati con dignità e nobiltà, e il 176-192, quando fu realizzata quella di Marco Aurelio, sulla quale i barbari sconfitti vengono rappresentati come feroci, brutali e selvaggi. Dopodiché il primo imperatore che combatté nel territorio (paludoso) dei barbari, fu Massimino di Tracia (235-238), anche lui di origini barbariche. Nel 251 un suo successore, Decio, perse la vita nella piana di Dobrugia scontrandosi con i Goti. Nel 296 Costanzo Cloro insediò prigionieri barbari (Camavi e Frisoni) nella Gallia del Nord. Diocleziano e Galerio ne distribuirono altri (Carpi, Basterni e Sarmati) in Pannonia.
Dal IV secolo alcune personalità barbariche, già profondamente romanizzate, fecero carriera nell’impero; alcuni di loro furono promossi generali, prefetti urbani, consoli. Come il generale vandalo Stilicone (359-408), di cui l’imperatore Onorio sposò la figlia. Talvolta, quando le incursioni dei barbari si erano fatte endemiche e l’esercito non era più in grado di contenerle, i Romani mettevano in campo truppe mercenarie di alleati barbarici. Dal 380 anche Unni, futuri sudditi di Attila. Gli Unni, secondo un’ipotesi formulata nel Settecento da Joseph de Guignes, discendevano da un popolo mongolo, gli Hiung-nu, che, sconfitti nel primo secolo dai Cinesi, sarebbero migrati verso ovest e, dopo un periodo di permanenza nelle steppe dell’Asia centrale, sarebbero arrivati in Europa. La Bozoki, sulla base di risultati di scavi archeologici, non crede a questa tesi. Ritiene che quella degli Unni fosse una popolazione sostanzialmente autoctona e mista, la quale, all’epoca di cui stiamo parlando, aveva un dominio esteso dall’Ucraina e dalla Russia meridionale fino alla Pannonia, il territorio della Romania, dell’Ungheria, della Slovacchia, il Sud della Polonia e l’attuale Repubblica ceca. Di per sé non erano ostili a Roma. Nel 378, è vero, erano stati alleati dei Goti, i quali con la battaglia di Adrianopoli (sul confine tra le attuali Bulgaria, Grecia e Turchia), avevano inferto una dolorosa sconfitta proprio ai Romani. Poi, però, all’inizio del V secolo, Uldino, predecessore di Attila, aveva offerto i suoi servigi a Stilicone, il quale si batteva proprio contro i Goti, che nel 406 avevano invaso l’Italia. In quello stesso 406 era poi iniziata la «grande invasione» della Gallia e della Spagna da parte di Vandali, Alani e Suevi.
Nel 410, il visigoto Alarico era penetrato fino a Roma, mettendola a sacco. Anche se la capitale effettiva dell’impero di Onorio era già Ravenna, il «sacco di Roma» aveva a tal punto impressionato Agostino d’Ippona da indurlo a profezie apocalittiche: «Forse la città non finirà ora», scrisse, « ma un giorno finirà senz’altro». Sant’Agostino aveva però messo in evidenza come i barbari avessero rispettato i santuari cristiani, santuari che poi erano stati utilizzati come asilo dai Romani stessi nei momenti più tragici della devastazione. Per Alarico Roma era una tappa come un’altra, tant’è che non la considerò una meta definitiva, anzi procedette subito in direzione della Sicilia, portando con sé in ostaggio Galla Placidia, figlia di Teodosio e sorellastra dell’imperatore Onorio. Dopodiché, morto Alarico in Calabria, il successore, Ataulfo, aveva sposato Galla Placidia e aveva addirittura offerto (vanamente) i suoi servigi a Onorio contro l’usurpatore gallo Giovino. Nel 429 i Vandali di Genserico erano passati nell’Africa del Nord e si erano insediati nella regione di Cartagine.
Questo per descrivere la complessità della situazione in cui Attila si trovò nel 435, quando succedette al padre Ruga e divenne (assieme al fratello) re degli Unni. Colui che sarà il suo avversario, Ezio, aveva vissuto gli anni giovanili come ostaggio dei Visigoti prima e degli Unni poi. Unni che aveva avuto come alleati tra il 425 e il 427 contro i Visigoti e nel 428 contro i Franchi renani nel Nord della Gallia. Poi, dopo l’ascesa al trono di Attila, Romani e Unni avevano combattuto assieme contro i Burgundi e nuovamente contro i Visigoti intenzionati a conquistare Narbona. Per quel che riguarda la vita ai tempi di Attila, esiste un prezioso resoconto (diretto) di Prisco di Panio, relativo a una sua missione presso la corte del re degli Unni nel 449 al seguito dell’ambasciatore Massimino di Costantinopoli. Se ne è conservato un frammento che nel X secolo l’imperatore Costantino Porfirogenito riportò in un suo libro sulle ambascerie. Prisco, riferisce Edward James nel saggio I barbari (Il Mulino) «evoca con grande efficacia la condizione mentale degli ambasciatori, costretti a dipendere da un interprete di cui diffidavano, disorientati dagli intrighi di corte, obbligati ad attendere per giorni prima di poter avere un incontro e costretti a ritornare continuamente sulle discussioni fatte per cercare di comprenderne il reale significato».
I segretari di Attila erano romani e avevano un papiro su cui erano riportati i nomi di tutti i fuorusciti unni di cui Attila pretendeva la restituzione. Addirittura, Attila era a tal punto furibondo con il messo diplomatico per il fatto che i fuggiaschi non fossero già stati riconsegnati, da dichiarare che lo avrebbe impalato e lasciato in pasto agli uccelli. Non lo fece, disse lui stesso, solo per non infrangere i diritti degli ambasciatori. Dando prova con questo di un grado di civiltà piuttosto elevato. Prisco racconta poi di aver conosciuto a corte un mercante greco che era stato fatto schiavo dagli Unni e successivamente aveva combattuto per loro, riconquistando in virtù di ciò la sua libertà. Costui diceva di aver potuto constatare che tra gli Unni si viveva meglio che sotto i Romani. Al che l’ambasciatore lo avrebbe accusato di aver tenuto un atteggiamento «antipatriottico», provocando in lui una reazione di pianto. Ma successivamente Prisco aveva trovato molte persone in grado di confermare quanto detto dal mercante greco e cioè che si stesse meglio tra gli Unni che sotto l’imperatore Teodosio. Anche a dispetto (o per merito) della severità delle leggi, che prevedevano punizioni assai crudeli. Si ha l’impressione che quello di Prisco fosse (pur camuffato da atto d’accusa nei confronti del mercante greco) un elogio del modello unno. Edina Bozoki, però, tiene a ricordare che la testimonianza di Prisco pecca per due difetti: «Per una certa imprecisione relativa alla geografia dei luoghi che descrive e, soprattutto, per il fatto di essere stata tramandata in modo frammentario e indiretto». In ogni caso quella di Prisco è la descrizione di un mondo civilizzato.
Secondo Lech Leciejewicz, che ne ha scritto in La nuova forma del mondo. La nascita della civiltà europea medievale (Il Mulino), la residenza di Attila, che si intuisce dalle descrizioni di Prisco, era molto «moderna» per quei tempi. Costruita con tronchi d’albero alla foce del Tibisco, in Ungheria, era circondata da una palizzata munita di torrette; in un edificio di legno vicino a quello del re «viveva anche il suo primo consigliere, il quale aveva ordinato ad un prigioniero proveniente da Sirmio di costruirgli un locale da bagno in pietra». Il tesoro di Attila conteneva numerosi gioielli d’oro, ornamenti per le vesti, armi e finimenti per cavalli. Nell’armamento, nell’abbigliamento e nei gusti artistici degli Unni si erano conservate alcune tradizioni asiatiche, che sembrano confermare la fondatezza della loro parziale identificazione con la tribù degli Hiung-nu.
Probabilmente è per il livello di civiltà diffuso tra le sue genti che Attila, come scrive ancora Edward James, è forse l’unico barbaro della sua epoca ancor oggi conosciuto in tutta Europa. Per taluni resta il simbolo stesso della ferocia; in Ungheria invece, è considerato un eroe nazionale e ai neonati viene tranquillamente dato il suo nome. Inoltre non sarebbe stato lui a inventare la «politica del ricatto», consistente nel chiedere ai Romani ingenti somme per evitare invasioni e depredazioni. Lo aveva fatto già il suo predecessore Rua. Inizialmente gli imperatori d’Oriente avevano accettato di versare agli Unni 350 libbre d’oro all’anno, libbre che — dal 438 — raddoppiarono, salendo a settecento. Nel 440, Attila si fece più esigente, minacciò Costantinopoli ottenendo 2.100 libbre d’oro e chiedendo arretrati per altre seimila. È stato calcolato che, fino al «rifiuto di Marciano», agli Unni erano state versate più di nove tonnellate d’oro. E fu quello il momento della svolta.
In che consiste il «rifiuto di Marciano»? Claudio Azzara in Le invasioni barbariche (Il Mulino) fa risalire il cambiamento di strategia degli Unni alla decisione, nel 450, dell’imperatore Marciano — succeduto a Teodosio II — di non versare più somme a quei «nuovi venuti». Edina Bozoki concorda con Azzara: una delle ragioni del cambiamento della politica di Attila, probabilmente la più importante, è nel drastico mutamento da parte di Marciano della strategia che era stata di Teodosio. Quella svolta, riprende Azzara, spinse Attila «a porre termine a ogni ambiguità e a marciare con risolutezza verso occidente, alla ricerca di bottino». Varcato il Reno, Attila aggredì in rapida successione Metz, Reims e Troyes, minacciò Parigi, quindi si diresse verso Orléans, a difendere la quale si compose un esercito, sotto il comando di Ezio, fatto da Romani e da guerrieri delle diverse stirpi barbariche stanziate in Gallia. Inclusi i Visigoti di Aquitania che rispondevano al re Teodorico I. Questi nel 451 sconfissero gli Unni nella battaglia dei Campi Catalaunici. E fu dopo questo smacco che, nel 452, Attila si diresse verso l’Italia, travolgendo dapprima Aquileia, poi Milano e Pavia. Può darsi che in quel momento Attila, accanto al progetto predatorio, coltivasse ambizioni politiche. Prisco racconta che quando Attila giunse a Milano, fu colpito da un dipinto che raffigurava gli imperatori romani assisi in trono con ai loro piedi i corpi di molti Goti uccisi; quindi avrebbe ordinato a un pittore di ritrarre lui stesso seduto sul trono, con gli imperatori che rovesciavano sacchi d’oro ai suoi piedi. Da ciò, Edward James prende in considerazione l’ipotesi che le sue ambizioni andassero molto oltre la semplice estorsione di denaro, «anche se è oltremodo arduo stabilire se dobbiamo considerare la richiesta di aiuto rivoltagli da Onoria, sorella di Valentiniano III, come un indizio del fatto che gli era stata promessa in sposa, o se egli abbia veramente preteso l’impero d’Occidente come dote di Onoria».
Come che sia, l’imperatore Valentiniano III ebbe paura di lui, abbandonò Ravenna e si rifugiò a Roma, mettendosi sotto la protezione di Papa Leone I. Quel Leone I che, in un «incontro provvidenziale» con Attila nei pressi di Mantova (nel 452), avrebbe convinto il sovrano barbaro a desistere dall’intenzione di invadere la città eterna. Il racconto di questo «miracolo» è di Paolo Diacono ed è stato fatto nel IX secolo, cioè quattrocento anni dopo il presunto accaduto. Un lasso di tempo che induce a qualche dubbio circa la veridicità della ricostruzione storica. Inoltre, fa osservare Edina Bozoki, «è abbastanza strano che Papa Leone I, che pure ha lasciato una corrispondenza piuttosto rilevante, non faccia mai allusione al ruolo da lui svolto presso Attila». Strana storia, soprattutto se si pensa che due anni dopo la morte di Attila, nel 455, Roma fu invasa dai Vandali di Genserico a dispetto dell’intercessione di quello stesso papa, Leone Magno. Va inoltre tenuto a mente che il racconto di Attila che si ritrae, dopo aver incontrato Leone, è stato riproposto — identico nel suo impianto fondamentale — per il modo in cui, centoquarant’anni dopo (nel 593), Gregorio Magno avrebbe fermato Agilulfo. Tra l’altro, quando Papa Gregorio agì con Agilulfo più o meno come Leone aveva fatto con Attila, gli fu stranamente rimproverata quella che Azzara definisce «un’ingenua arrendevolezza al cospetto del nemico barbaro». Secondo Azzara, è più probabile che nel 452 Attila si sia ritirato per non affaticare ulteriormente i suoi uomini in un’inutile discesa verso l’Italia meridionale e una città, Roma, che non aveva per lui grande interesse. Quella di Leone Magno va dunque considerata una leggenda o una storia molto ingigantita rispetto a quel che accadde davvero.
In ogni caso nacque a quel tempo il mito del «flagello di Dio» piegato da una Chiesa disarmata. Uno dei più grandi miti di tutti tempi. Un mito coevo di Attila. Già nel 396 san Girolamo aveva identificato le invasioni barbariche come un castigo divino: «Se i barbari sono forti», aveva scritto, «è per i nostri peccati, ed è a causa dei nostri vizi che l’esercito romano subisce sconfitte … E disgraziati noi che ci rendiamo così poco accetti a Dio, la sua ira si abbatte su di noi attraverso la violenza dei barbari». Dopo la devastazione di Roma da parte di Alarico (410), sant’Agostino aveva aggiunto: «La pazienza di Dio invita i cattivi al ravvedimento, come il flagello di Dio (flagellum Dei ) istruisce i buoni alla pazienza». Ma era stato Isidoro di Siviglia (560-636) a compiere l’identificazione tra il flagello (un’arma fatta da un manico di legno munito di una catena metallica alla quale è agganciato un blocco di ferro) e gli Unni: «Essi sono il flagello della collera di Dio, e ogni volta che si produce la sua indignazione contro i fedeli, questi sono da loro flagellati affinché, castigati per mezzo delle loro afflizioni, siano puniti a causa della cupidigia del secolo e del peccato, ed ereditino il regno dei cieli».
Ma nell’Europa centrale furono altri i motivi per i quali Attila passò alla storia e al mito. Julia M.H. Smith, nel suo L’Europa dopo Roma (Il Mulino), ha prestato grande attenzione al Waltharius . Nel Waltharius , opera epica in latino risalente probabilmente alla fine del IX o al X secolo, si narrano le gesta di un eroe — leggendario, non storico — di nome Walther «che diventa adulto mentre è ostaggio presso la corte di Attila. Assieme a lui il re degli Unni aveva preso prigioniera anche l’erede al trono burgundo e promessa sposa di Walther, Hildgund, oltre al nobile franco Hagen, consegnatogli in cambio del principe franco Gunther, all’epoca ancora in fasce». I tre «beneficiano dell’ospitalità di Attila e con il tempo raggiungono posizioni eminenti nella sua corte, Hildgund come dama di compagnia della regina unna, Walther e Hagen come comandanti vittoriosi dell’esercito unno». Quando poi Gunther diventa re dei Franchi, Hagen fugge per unirsi a lui. Qualche tempo dopo anche Walther e Hildgung fuggono dalla corte di Attila, portando con sé il tesoro degli Unni. Ma per raggiungere l’Aquitania devono attraversare il regno di Gunther, il quale, venuto a conoscenza del transito dei due, spedisce contro di loro dodici guerrieri che hanno l’ordine di impadronirsi del prezioso carico. Walther decide di affrontare i dodici guerrieri di Gunther, tra cui è anche il suo amico di gioventù Hagen. E alla fine, morti tutti gli altri, Hagen e Walther saranno costretti a combattere l’uno contro l’altro. Al termine di un combattimento assai violento, Walther prevarrà, sposerà finalmente Hildgung e i due daranno vita a una dinastia regale. Attila qui appare come un sovrano generoso. Un grande, anche a dispetto della successiva rottura con Gunther, Walther e Hildgung.
Ci sono poi altre opere in cui la corte di Attila rivaleggia in celebrità con quella di Artù: il lungo poema Biterolf (composto tra il 1250 e il 1260) fa del re degli Unni un ritratto particolarmente lusinghiero. In ogni caso, alla luce delle fonti dell’epoca, scrive la Bozoki, «niente giustifica la reputazione di estrema ferocia che progressivamente sarà associata all’immagine degli Unni e soprattutto del loro re». Ciò che aveva già intuito nell’Ottocento Amédée Thierry, quando scrisse che «si percepisce che l’Attila della storia non è affatto quello della tradizione». Ma allora a cosa si deve il racconto del «flagello»? A storie «ricostruite» attorno al X secolo, quattrocento anni dopo la morte di Attila, avvenuta, come si è detto, nel 453. Storie edificanti a gloria della Chiesa. Come quelle di santa Genoveffa protettrice di Parigi e di sant’Aniano, vescovo di Orléans, ai tempi della battaglia dei Campi Catalaunici. E ad edificazione del mito dei «vescovi resistenti» (primo tra tutti, Servazio) che avrebbero salvato l’Italia e l’Europa laddove l’amministrazione militare e civile dell’Impero era venuta meno. Tema che si ripropone nel X secolo ai tempi delle invasioni ungheresi (924), quando si sviluppano le leggende di san Lupo, san Geminiano, sant’Albino, sant’Autore e san Liborio, oltre a quelle di sant’Orsola e delle «undicimila vergini martiri di Colonia» violate e in gran parte uccise da Attila e dai suoi (769 delle quali saranno addirittura «identificate», nome per nome, tra il 1183 e il 1187, circa settecento anni dopo il supposto massacro).
Inizia così la storia dell’uso politico della leggenda di Attila. Nell’XI secolo fu redatta una Storia dei vescovi di Liegi , nella quale era esposta la tesi che gli Unni discendessero addirittura dagli Ebrei. Tesi riproposta tre secoli dopo nello Specchio delle storie di Jean d’Outremeuse. Raccontavano questi testi che gli Ebrei, ai tempi di Claudio, Tito e Adriano, avessero riparato nel Catai (in Cina) da dove poi, su disposizione del loro Dio, nel IV e V secolo sarebbero tornati in Europa per distruggerla. Sotto la guida di Attila.
Ma nell’uso di Attila da parte della Chiesa di Roma ce n’è anche per i musulmani. In La guerra d’Attila di Niccolò da Casola (1358) il re degli Unni è chiaramente assimilato ai saraceni maomettani. E tra i paladini che si battono contro il sovrano barbaro si distingue Foresto, principe d’Este. E per tutto il XIV secolo, nota Bozoki, «la popolarità letteraria di Attila, presentato come un nemico pagano assimilato ai saraceni, si spiega con l’atmosfera generale che ridà vigore all’idea delle crociate». Un discorso che continuerà a valere per molti decenni. Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata (1581), a gloria della famiglia estense, descrive Foresto che si batte contro Attila nella difesa di Aquileia come l’«Ettore italiano». Ma da tempo ormai, in virtù della demonizzazione cristiana, Attila è ovunque: nella Divina Commedia di Dante (nel XIII canto dell’Inferno, come distruttore di Firenze), in alcuni dipinti di Giotto (oggi scomparsi) dove è raffigurato tra gli eroi pagani. Il massacro delle undicimila vergini di Colonia ispira Jacopo da Varazze, Tommaso da Modena e Carpaccio
Ma ci sono dei cattolici per i quali Attila torna ad essere un mito positivo. È quel che accade in Ungheria, dove nell’XI secolo nasce uno Stato cristiano che è assai potente per ben cinquecento anni, fino al 1526, quando è sconfitto dai turchi ottomani. In questo Stato compare una Storia degli ungheresi (1210) a cura di un anonimo che probabilmente è il notaio del re Béla III, nella quale Arpad, capostipite della dinastia reale, è individuato come un discendente di Attila. Tema su cui torna Simon Kézai, un chierico alla corte del re Ladislao IV, che alla fine dello stesso secolo ribadisce quella linea di discendenza e la collega alla storia della Bibbia. Kézai, scrive la Bozoki, «mette in evidenza le virtù principesche del re unno; era audace ma con giudizio, scaltro e vigile in battaglia, molto forte fisicamente, magnanimo e, soprattutto, di una straordinaria generosità che lo faceva amare dagli stranieri, mentre gli Unni lo temevano per la sua severità». E anche dopo la fine di questo Stato, tra gli ungheresi Attila continua ad essere ben considerato. Nella Cronaca degli ungheresi del notaio János Thuroczy (1486) si traccia una ritratto di Attila, «eletto re con voto unanime», come del più grande sovrano della sua epoca. A questo punto la memoria del «flagello di Dio» è quantomeno riequilibrata.
Nel 1667 Pierre Corneille dedica ad Attila una delle sue ultime opere teatrali, per spiegare quale fosse l’uso (in fondo pacifico) che il re degli Unni faceva, a sua volta, della paura da lui provocata tra i popoli europei: «Egli brama le conquiste, ma odia altrettanto le battaglie. Vuole che il terrore del suo nome sia quello che gli abbatte le muraglie». In buona sostanza, più che una belva è un abile stratega, che inventa la deterrenza. Nel 1734 Montesquieu — nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza — fa un ritratto di Attila piuttosto elogiativo. Mette in risalto che «Attila ha lasciato sopravvivere Roma non per moderazione, ma per seguire i costumi della sua nazione che imponevano di sottomettere i popoli e non di conquistarli». Lo considera come «uno dei maggiori monarchi di cui la storia mai abbia parlato». I suoi sudditi — sostiene Montesquieu — «lo temevano ma non lo odiavano»; era «superbo ma anche astuto»; «collerico e però capace di perdonare o di rimandare la punizione»; «mai faceva la guerra quando la pace poteva dargli bastanti vantaggi; fedelmente servito pure dai re che erano alle sue dipendenze, aveva serbato per sé solo l’antica semplicità dei costumi degli Unni».
Dal XVIII secolo gli Unni e Attila sono celebrati in un numero crescente occasioni. In Ungheria, dal Settecento, il tema dell’origine unna, afferma Edina Bozoki, «è considerato come un fatto acquisito, ma è sfruttato a seconda dell’orientamento politico degli autori, divisi tra l’amicizia e l’ostilità nei confronti degli Asburgo». Nel poema latino di Sigismond Varjù intitolato Divina metamorfosi seu Hungaria e gentili Christiana (1711) gli Unni e Attila si mostrano nei «loro tratti più barbarici e, soprattutto, anticristiani». Altrove ci sono però giudizi molto diversi. All’inizio dell’Ottocento, in De l’Allemagne , Madame de Staël identifica il re degli Unni con Napoleone. Ma, in tempi successivi, nella letteratura patriottica successiva al fallimento dell’insurrezione ungherese del 1848-49, «si manifesta un particolare interesse per le leggende unne, considerate come temi dell’identità nazionale». Poco tempo prima (nel 1846) Giuseppe Verdi nel suo Attila (in un libretto scritto da Temistocle Solera e completato da Francesco Maria Piave) aveva inteso denunciare dietro il regime degli Unni l’oppressione degli Asburgo. Assai velatamente, a dire il vero. Nel 1858, l’Alessandro Manzoni magiaro, Mor Jokai, scrive che Attila fu a tal punto importante che, per volontà di uno sciamano, fu seppellito nel letto del fiume Tibisco affinché «non si potesse mai ritrovare il luogo della sua sepoltura». E il più grande poeta ungherese dell’Ottocento, Janos Arani, nel 1863 compone un poema in dodici canti sull’uccisione di Bleda (o Buda), fratello di Attila, che lo aveva scoperto a tramare contro di lui, per giustificare e nobilitare quella uccisione.
Il culto di Attila si accentua dopo la fine della Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’impero austro-ungarico. In Urss diventa a suo modo un eroe protocomunista. In Unione Sovietica Evgenij Zamjatin, nel 1928, dedica un’imponente opera teatrale proprio al re degli Unni. Il Comitato di lettura del Grande teatro drammatico di Leningrado, affiancato dai rappresentanti di molte fabbriche della città, dà parere favorevole alla sua rappresentazione. Ma, racconta Edina Bozoki, «durante le repliche, lo spettacolo viene improvvisamente vietato». Scritta «in un linguaggio espressionista, laconico e popolare, l’opera di Zamjatin è una metafora della rivoluzione sovietica». Attila è «la fiamma della rivoluzione che sta per sconvolgere il vecchio mondo civilizzato». E a chi gli propone la pace, gli chiede di lasciare il mondo così com’è, evoca le bellezze e le ricchezze di Roma e gli rimprovera i centomila morti di cui è responsabile, Attila risponde «che vuole la vita di tutti, non solo dei centomila romani che hanno sottomesso milioni di schiavi». E gli schiavi stanno ad ogni evidenza per il proletariato mondiale. Ma il personaggio descritto da Zamjatin è contraddittorio: «Benché sia presentato come il liberatore degli oppressi, è crudele e sanguinario; ispira timore». Sotto certi aspetti «fa pensare a Lenin e ancora di più a Stalin». Ad esempio «l’ordine di giustiziare il suo stesso fratello può essere inteso come un’allusione alla lotta senza quartiere condotta da Stalin all’interno del partito bolscevico». E, in ogni caso, così lo percepisce il dittatore georgiano, che fa vietare lo spettacolo.
Zamjatin nel 1931 espatria, va a Parigi, dove inizia a scrivere un romanzo, Il flagello di Dio , che resterà incompiuto. L’autore russo descrive il mondo romano come «decadente e perfino ridicolo». Un mondo nel quale «regna un’atmosfera carica di inquietudine e di crisi; si aspettano guerre, insurrezioni, catastrofi; le fabbriche chiudono; i disoccupati reclamano il pane; gli uomini non si fidano più nemmeno dell’oro, estremo rifugio». Attila, giovane ostaggio a Roma, è sorpreso dall’indolenza dei ricchi portati in lettiga, dall’etichetta e soprattutto dal servilismo che regnano alla corte imperiale… Purtroppo però Zamjatin muore prima di giungere al dunque, cioè al punto in cui descrive, approfondendo i temi della sua precedente opera teatrale, gli effetti della «rivoluzione» di Attila. Per poco — si può asserire — non ha visto la luce un Attila antistaliniano.
Nel frattempo, in Ungheria, tra le due guerre mondiali ci si dedicò a un culto di Attila protonazista e si progettò di innalzare a Budapest una statua equestre che rappresentava Attila rivolto verso l’Occidente in atto di sfida. Un movimento detto dei «nuovi pagani» iniziò poi la costruzione di una torre in memoria di Attila. Tra la fine degli Anni Quaranta e i primi Anni Cinquanta nell’Ungheria socialista questa costruzione fu utilizzata come torre di controllo dalla polizia segreta. Poi fu lasciata andare in rovina. Ma dopo la fine del comunismo, ecco rispuntare una «Santa chiesa degli unni» che sostiene essere stati «gli etruschi una tribù unna, così come i cinesi e i giapponesi». Ed ecco nascere il partito (di estrema destra) dell’«Alleanza unna». E alla fine (nel 2010) viene eretta una statua ad Attila, alla cui inaugurazione sono presenti il presidente del Parlamento, il ministro della Difesa, militari, sindaci, rappresentanti degli ungheresi che vivono oltreconfine. Un sacerdote della Transilvania benedice la statua «in nome di tutti gli ungheresi». A questo punto si può essere certi che la storia di Attila, o meglio del suo mito, non finisce qui. E che il futuro prossimo sarà sempre più generoso nei suoi confronti.