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 2014  gennaio 21 Martedì calendario

SPORCA, CAOTICA, INSICURA CAPITALE SENZA GOVERNO LA CADUTA DI ROMA


Il crepitio delle fiamme che divorano rabbiose una Smart squarcia il silenzio della notte. L’aria è irrespirabile, il calore tremendo. Il vetro blindato della posta che sta dirimpetto, sul marciapiede, cede di schianto. Le finestre degli uffici del Senato, a venti passi di distanza. Siamo dietro Palazzo Madama, nella zona più controllata della capitale d’Italia, con una garitta dei carabinieri ogni dieci metri.
In 2.767 anni di storia a Roma si è visto certamente di peggio. Soprattutto di notte. «Un incosciente sei, uno che non considera l’imprevedibilità degli eventi se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: in ogni finestra aperta, dove di notte si spiano i tuoi passi, sta in agguato la morte», ammoniva nelle sue Satire diciannove secoli orsono il poeta Giovenale. Anche a piazza dei Caprettari, il posto dove alle tre del mattino di venerdì 17 gennaio i coatti hanno dato fuoco a quella Smart, sono accaduti fatti ben più gravi. E non serve andare tanto indietro nel tempo. Basterebbe ricordare la rapina che nel febbraio 1975, in quello stesso ufficio postale davanti al quale è bruciata la piccola utilitaria, si concluse con l’assassinio del poliziotto Giuseppe Marchisella: prima tragica impresa romana del Clan dei marsigliesi, antesignani della Banda della Magliana. Ma quel gesto sfrontato nel cuore del potere, in faccia a telecamere disseminate ovunque, dice tutto del degrado anche sociale nel quale è ripiombata Roma. Specchio di un Paese mai come oggi identificabile con quel lapidario aforisma regalatoci un secolo e mezzo fa da Mark Twain: «Così come noi americani non abbiamo passato, l’Italia sembra non avere futuro». Tanto da far tornare alla mente l’equazione della prima squassante inchiesta sulla speculazione edilizia e i rapporti fra affari e politica condotta dall’Espresso cinquantotto anni fa: «Capitale corrotta = Nazione infetta».
La classifica dei capoluoghi
Nel 2008 il futuro sindaco Gianni Alemanno aveva promesso in campagna elettorale tolleranza zero verso la criminalità, dopo l’omicidio a Tor di Quinto di una signora, Giovanna Reggiani, per mano del rumeno Nicolae Mailat. Cinque anni e mezzo dopo il suo successore Ignazio Marino si ritrova a guidare una città che la classifica della sicurezza stilata proprio dall’università romana La Sapienza per ItaliaOggi Sette colloca al posto numero 101 sui 110 capoluoghi. Due posizioni dietro Napoli, che occupa la casella 99. E non può consolare il fatto che Milano sia ritenuta ancora meno sicura, la peggiore d’Italia. Perché la graduatoria della qualità complessiva della vita piazza il capoluogo lombardo ben 27 posti sopra Roma, precipitata negli ultimi due anni dalla cinquantunesima alla sessantaquattresima posizione.
E gli incidenti? Anche attraversare la strada può essere statisticamente un bel rischio. Nel 2012 sono stati travolti e uccisi dalle auto 56 pedoni, contro 24 a Milano, 9 a Napoli, 8 a Torino, Firenze e Palermo. Perché mai proprio a Roma il 37,8 per cento dei 148 investimenti mortali registrati in tutta Italia? Forse perché c’è l’abitudine di attraversare fuori dalle strisce o con il semaforo rosso. Ma pure chi al Comune ha il compito di studiare come far passare i pedoni da un lato all’altro della strada deve avere le sue responsabilità. Secondo i test degli attraversamenti pedonali realizzati dall’Epca, l’European pedestrian crossing assessment, Roma è al trentesimo posto su 31 città europee esaminate.
Poi c’è il traffico: un girone dantesco. Se si eccettua Catania, nel Paese (l’Italia) che ha il record mondiale di veicoli a motore in rapporto agli abitanti, Roma è la città in assoluto con più automobili: 67 ogni cento residenti. Contro 53 di Milano, 50 di Madrid, 45 di Parigi, 43 di Bruxelles, 41 di Barcellona, 40 di Vienna, 32 di Londra e Berlino. Senza considerare il numero enorme di moto, motorini, furgoni e pullman turistici che stringono il fragile centro storico della capitale in una morsa d’acciaio. È stato calcolato che il 20 per cento della superficie urbana della città sia coperta da veicoli. Ogni cittadino romano trascorre mediamente in auto 227 ore l’anno. Conseguenza di uno sviluppo urbano folle e insensato, con quartieri periferici cresciuti senza alcun criterio intorno a strade del tutto insufficienti e un trasporto pubblico inesistente o allo sbando. Anche se i dipendenti dell’azienda di trasporto comunale sono quasi 12 mila, uno ogni 229 abitanti. Il risultato di decenni di gestione sconsiderata della città, in assenza di qualunque visione strategica, si può condensare nei 37 chilometri di linee metropolitane di cui è dotato il Comune territorialmente più vasto d’Europa, con quasi tre milioni di residenti e un’area urbana di cinque milioni: due chilometri in meno dei 39 della città spagnola di Bilbao, un sesto di Parigi, meno di un decimo di Londra. Commenta la scrittrice Dacia Maraini, che vive nella capitale da sessant’anni: «A Roma tutto ciò che appartiene alla mano pubblica è difficile, quasi nemico. Penso al sistema viario. Al traffico privato infernale. Ai tram e agli autobus strapieni, alle file alle fermate…».
Il tutto in un clima di arbitrio assoluto, nel quale nessuno sente il dovere di far rispettare le più elementari regole di convivenza civile. La prova è in piccoli episodi, come quello avvenuto in una sera di novembre davanti a una famosa pasticceria in via Albalonga, nel quartiere Appio. Da mesi gli abitanti protestavano inutilmente per le auto in sosta selvaggia in seconda e terza fila, con esposti al sindaco, ai vigili, al questore e al prefetto. Quella sera c’erano tante macchine a ostruire il traffico che il bus 87 non riusciva a passare. È finita che anziché rimuovere le auto hanno deviato il bus, dopo aver chiamato senza successo la polizia municipale.
Il traffico in tilt
Tante automobili, in una struttura urbana in larghissima misura inadatta al traffico veicolare, per di più nel caos assoluto, significa tanti incidenti. Nel 2012, ben 43 al giorno per un totale di 15.782. E tanti morti. Secondo l’Istat le vittime nella sola Roma sono state 154, contro 61 a Milano, 26 a Torino, 34 a Napoli e 932 nell’intero Paese. Con meno del 5 per cento della popolazione, la capitale è responsabile del 16,5 per cento degli incidenti mortali. La manutenzione delle strade è ai minimi termini. Al punto che una importante casa motociclistica ha deciso di collaudare la resistenza delle carrozzerie dei suoi scooter facendogli percorrere piazza Venezia.
Negli ultimi due anni il numero delle voragini è quasi raddoppiato, da 44 nel 2011 a 84 nel 2013. Smottamenti del terreno, pessima qualità dei lavori stradali, scavi per condutture chiusi maldestramente, perdite idriche: le cause sono tante. Può perfino succedere, com’è accaduto il 16 luglio scorso, che un camion dei Vigili del fuoco, chiamato per l’apertura di una voragine sprofondi a sua volta in un’altra voragine.
Come può anche accadere che nel pieno centro della città, fra piazza Venezia e il Pantheon, i telefoni restino isolati quattro giorni perché un cavo dell’alta tensione dell’Acea è andato a fuoco, bruciando tutte le linee. O che, tre mesi più tardi, l’illuminazione pubblica intorno al Senato rimanga misteriosamente spenta per giorni. Questo per dire come il livello dei servizi pubblici in una grande città sia essenziale per determinare la qualità della vita. I rifiuti, per esempio. Roma da anni è pericolosamente sull’orlo di una colossale emergenza ambientale, con la discarica più grande d’Europa che periodicamente viene considerata esaurita per essere di nuovo prorogata. La produzione di spazzatura è mastodontica: 660 chili l’anno ad abitante. Per capirci, 113 chili più di Napoli, 127 più di Milano, 155 più di Messina, 200 più di Trieste. Ufficialmente, la raccolta differenziata è al 25,1 per cento, percentuale fra le grandi città superiore solo a Bari, Napoli, Catania e Palermo. Ufficialmente… Per quanto riguarda poi l’igiene urbana, basta guardare in quali condizioni indecenti è tenuto uno dei monumenti più importanti dell’Italia intera: la Breccia di Porta Pia, attraverso cui i bersaglieri guidati da Giacomo Pagliari entrarono nella Roma papalina il 20 settembre del 1870. Assediata dalla spazzatura, senza nemmeno un cartello che spieghi dove ci si trova: le aiuole circostanti infestate dalle erbacce, sono un ricovero di senzatetto. A 300 metri da una sede dell’Ama, l’azienda municipale ambiente che conta poco meno di 8 mila dipendenti. Compreso un discreto numero di spalatori di foglie: 164 assunti in un colpo solo dalla giunta di Gianni Alemanno nel 2011. Eppure molte strade alberate, da mesi, sono in condizioni pietose.
Non sono cose di oggi, intendiamoci. Nel centro si incontrano praticamente a ogni angolo le targhe di marmo che nel Settecento ammonivano gli abitanti a non gettare l’immondizia per strada, al prezzo di severe pene corporali. Minacce che però non dovevano incutere tanto timore, se all’inizio dell’Ottocento Stendhal raccontava: «Regna nelle strade di Roma un odore di cavoli marci».
Il problema è non avvertire che siano passati due secoli. L’incuria è totale, in linea con la reputazione dei servizi pubblici. C’è un sito internet con centinaia di fotografie, scattate in ogni via e strada, dal centro alla periferie, che testimoniano lo stato pietoso del capitolo rifiuti. Tra queste, lo scatto formidabile che ha immortalato alcuni maiali grufolare tra i sacchetti di immondizia in via Boccea, appena dopo le feste natalizie. Grazie a quella foto si è scoperto che a fine anno l’Ama aveva il personale a ranghi ridottissimi: erano tutti in ferie. Per non parlare del campo profughi abusivo che da anni resiste indisturbato sul Colle Oppio, a due passi dalla Domus Aurea neroniana, con inferriate del parco ridotte a stendini per la biancheria e i vestiti lavati nelle fontane a cento metri dal Colosseo. L’indirizzo di quel sito è tutto un programma: www.romafaschifo.com.
In questo scenario non poteva mancare una piaga che sta affliggendo tante città, soprattutto al Sud: il furto dei cavi di rame. Ma non solo. Nel Cimitero monumentale del Verano, progettato da Giuseppe Valadier tra il 1807 e il 1812, continuano a sparire croci di bronzo e suppellettili delle tombe che alimentano il traffico clandestino dei metalli, in mano a molte famiglie di nomadi. Intorno ai sepolcri, e in alcune cappelle, la notte dormono disperati senza casa. Ha scritto un giorno al Corriere il lettore Gordon Tanzarella: «Ho visto un cartello che diceva: “In questa tomba ci sono i nostri cari, vi preghiamo di averne rispetto e di non usarla come dormitorio”».
La conclusione non può che essere una. La città che è la più grande azienda italiana per stipendi pagati, con un numero di dipendenti comunali pari a oltre il doppio degli occupati negli stabilimenti italiani della Fiat, non è governata. Certo, governarla non è semplice. Pensando soltanto al delirio delle 600 manifestazioni che l’attraversano ogni anno, con un impatto terrificante sui servizi. E a chi, come il Financial times gli ha messo il dito in un occhio, parlando di una città «depressa», Marino replica serafico: «Roma non fu fatta in un giorno. Stiamo facendo progressi». Auguri.
Dice lo storico Vittorio Vidotto, autore del saggio Roma contemporanea : «Il problema principale di Roma è la sua incapacità di diventare una moderna capitale. Non si è modellato lo sviluppo della città sulla base dei trasporti. L’antica struttura radiale di Roma sarebbe potuta essere la base per linee logiche di espansione ma così non è stato. Poi c’è la sua triplice identità: grande città storica, capitale della Repubblica e centro del cristianesimo. E troppo spesso l’amministrazione comunale si è trovata in aperto conflitto col governo nazionale e con le altre città italiane, assai poco disposte ad assicurare finanziamenti a Roma per la sua condizione di capitale. E poi c’è la pochezza degli ultimi sindaci. Infine un male diffuso: l’assenza di qualsiasi cultura legata alle regole condivise e rispettate da tutti».
Le domande di condono
Colpa dei cittadini, dunque. Ma anche di una classe dirigente che ha privilegiato gli interessi privati a quelli collettivi. Non c’è altra capitale occidentale la cui crescita urbana sia stata così disordinata e di scarsa qualità. Fra il 1951 e il 2013 i residenti nella città sono aumentati da un milione 651 mila a 2 milioni 753 mila. Il consumo del suolo è risultato vertiginoso, con il 20 per cento del territorio ormai non più naturale. Frutto di una espansione assurda, che non si è mai arrestata, anche dopo l’edificazione degli immensi quartieri dormitorio degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Ha solo cambiato pelle. Fra il 1993 e il 2008 altri 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e coperti di cemento ben oltre la domanda di case. Con il risultato che oggi abbiamo nel solo Comune di Roma 245 mila abitazioni vuote, spesso in zone senza servizi, prive di collegamenti e di strutture decenti.
E se adesso nella città dei 600 mila lavoratori edili degli anni d’oro le costruzioni incidono appena il 5,4 per cento sul valore aggiunto totale, contro l’86,5 dei servizi, continuano a girare molti soldi. Il mattone ha lasciato segni profondissimi nella geografia del potere. Non per nulla il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone controlla un rilevante pacchetto azionario dell’Acea, la più grande municipalizzata italiana tuttora guidata da uomini a lui non sgraditi, e possiede il Messaggero , maggiore quotidiano della capitale. Mentre il secondo giornale, il Tempo , è nelle mani di un altro costruttore: Domenico Bonifaci, il quale tanti anni fa l’ha comprato dallo stesso Caltagirone.
E segni fisici profondissimi ha lasciato l’abusivismo edilizio, abbattutosi sulla città come una piaga biblica. Lo dimostrano le 597.000 (cinquecentonovantasettemila) domande di condono presentate dal 1985. Per dare un’idea del tasso di illegalità, è come se un cittadino su quattro o poco più avesse commesso un abuso, senza considerare quanti non hanno compilato il modulo. La piaga ha attraversato tutte le amministrazioni: emblematica la storia delle Terrazze del Presidente nella zona di Acilia, oltre 1.300 appartamenti sanati in un colpo solo durante la giunta di sinistra al termine di un’offensiva speculativa nata vent’anni prima su terreni un tempo agricoli grazie a un accordo fra i costruttori Antonio Pulcini e Salvatore Ligresti.
Il bello è che di quelle domande di condono, con l’ultima sanatoria chiusa ormai dieci anni fa, ne devono essere ancora esaminate almeno 150 mila. Non sarà perché, come dice Toni Servillo, alias Jep Gambardella in quel meraviglioso e sconcertante affresco del potere che è La grande bellezza , «a Roma si perde un sacco di tempo»?

(1 - continua)