Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 21 Martedì calendario

LA SCALA, I BERLINER, LA SCOPERTA DI TALENTI E NEGLI ULTIMI TEMPI STUDIAVA SCHUMANN


La musica è stata la sua vita. E Claudio non ha ci mai rinunciato. Persino negli ultimi giorni studiava con la solita caparbietà la partitura che avrebbe tanto voluto dirigere, la Terza di Schumann. Un impegno appassionato che ha contribuito a rendere il congedo sereno, «fortunato». Aggettivo a lui caro, che usava spesso e con riconoscenza. Lo aveva ripetuto lo scorso 26 giugno, per i suoi 80 anni, e persino negli ultimi mesi, quando il cancro si era ripresentato. Ma la malattia non lo spaventava. «È stata la mia fortuna — ripeteva —. Mi ha fatto riflettere su quello che conta davvero: la musica, gli affetti».
I figli anzitutto. E poi i giovani talenti con cui ha dato vita a tante orchestre, dalla European Union Youth Orchestra alla Mahler Chamber, dalla Lucerne Festival Orchestra alla Mozart di Bologna. Fresche energie a cui Claudio accostava con alchemica abilità prime parti come Wolfram Christ, Natalia Gutman, Sabine Mayer, Isabelle Faust... Infine gli amici. Da Maurizio Pollini a Luigi Nono, compagni d’arte e di battaglie civili, da Guido Crepax, complice di lunghe sfide ai soldatini, a Renzo Piano cui l’univa l’amore per il mare e la vela. E Roberto Benigni, suo indimenticabile Pierino per Prokoviev, Bruno Ganz interprete supremo del Manfred di Schumann. E Claudio Magris, Ermanno Olmi, Peter Brook...
Legami saldi come quello che, tantissimi anni fa, lo unì a due ragazzacci innamorati della musica, Zubin Mehta e Daniel Barenboim. Proprio con Barenboim a fianco, il 30 ottobre 2012 Abbado torna, dopo 26 anni di assenza, alla Scala. Un rientro trionfale dopo la delusione di una promessa disattesa, i 90 mila alberi chiesti da lui come «cachet verde» per Milano. Ma poi il miracolo accade: Claudio è di nuovo sul podio della Filarmonica da lui fondata nel 1982.
Una gran festa che lo riconcilia con la sua città, un amore segnato da ferite segrete e dolorose. Prima tra tutte il brusco congedo dalla Scala, di cui lui diventa direttore musicale a soli 35 anni. Un destino deciso quando a sette anni il padre Michelangelo, violinista, lo porta in quel teatro a sentire i Nocturnes di Debussy diretti da Guarnieri. Tornato a casa il piccolo Claudio scrive sul suo diario: «Un giorno voglio ricreare anch’io quella magia». La sua nomina al Piermarini, nel fatidico 1968, segna per lui e per il teatro l’inizio di un periodo d’oro. Il giovane direttore rivoluziona il repertorio: accanto a Verdi e a Rossini entrano Mahler, Berg, Schoenberg, Nono, Stockhausen. Chiama cantanti come Domingo, Cappuccilli, Pavarotti, Carreras, Mirella Freni, Katia Ricciarelli. Interpreti leggendari di spettacoli leggendari, da Macbeth a Simon Boccanegra , da Lohengrin , regia di Strehler, a Viaggio a Reims e Don Carlo con Ronconi. E poi Il barbiere di Siviglia e L’italiana in Algeri con Ponnelle e il Boris Gudunov con Lubimov….
Dal ‘79 affianca all’impegno scaligero quello della London Symphony. Intanto a Milano con Paolo Grassi vara i Concerti per lavoratori e studenti, convinto che la musica sia un bene di tutti. Scelte fuori dalle righe. Le tensioni intorno alla Scala crescono e nel 1986 Abbado se ne va. Prima a Vienna, direttore principale dei Wiener, poi a Berlino, successore di von Karajan ai Berliner. «Due grandi occasioni capitate proprio grazie a quelli che tanto hanno fatto perché me ne andassi da Milano», ricordava trasformando l’amarezza in soddisfazione.
A Berlino, dove approda in un altro anno fatale, quel 1989 della caduta del Muro, mette a punto alcuni cicli tematici su archetipi mitico-letterari, da Prometeo a Faust ad Amore e morte . Valicando frontiere riunisce nei Berliner musicisti dell’Est e dell’Ovest, dà spazio all’amata musica contemporanea. Assume anche la guida del Festival di Pasqua di Salisburgo, dove dirige di Wozzeck con Peter Stein, Boris con Wernicke, Elektra con Dodin.
Poi, nell’estate del 2000, dopo il Don Giovanni a Aix-en-Provence, la malattia lo sorprende con violenza. Ma non lo piega. Tre mesi dopo è di nuovo sul podio, fragilissimo nell’aspetto ma traboccante di energia. Da quel momento in poi il suo celebre gesto, così elegante ed essenziale, si fa magico. La sintonia con i Berliner si rafforza, portano in tournée l’integrale delle Sinfonie e Concerti per piano di Beethoven. A Roma, a Santa Cecilia, la platea va in delirio. Nel 2004 si trasferisce a Bologna e fa nascere l’Orchestra Mozart. Altri giovani destinati a diventare ottimi musicisti. «Ascoltarsi l’un l’altro è la chiave. In orchestra come nella vita», suggerisce. Con loro porta la musica nelle carceri, nelle scuole, negli ospedali. Da uomo di sinistra coniuga l’arte con l’impegno sociale. Nei mesi più freddi sverna in Sud America a fare musica con i ragazzi della Simon Bolivar creata da Abreu, inventore di un «Sistema» che ha salvato dalla strada migliaia di emarginati. Ammirato, Abbado si spende per importarlo anche in Italia. E difatti oggi il «Sistema» sta prendendo piede anche da noi, grazie a una salda rete di collaboratori.
Claudio non c’è più. Forse ha raggiunto quel silenzio tanto a lungo inseguito. Quello iato misterioso che intercorre tra un suono e un altro e senza cui la musica non esisterebbe. Uno spazio segreto che lui riusciva a dilatare sempre più. La Marcia Funebre della Terza di Beethoven diretta lo scorso agosto a Lucerna, così lenta, quasi presaga, ne è stata un esempio da brivido. Uno straziante, simbolico, congedo. L’incontro con la morte è stato lungo, ma Claudio ha saputo trasformarlo in occasione di rinascita. E forse ora è di nuovo nel suo giardino a picco sul mare di Alghero, ad ascoltare il vento tra le palme. Dove si rifugiava appena possibile, orgoglioso di ogni singola pianta. Perché, come confessò una volta, «in fondo al cuore penso di essere solo un giardiniere».