Stefania Ulivi, Io Donna 18/1/2014, 18 gennaio 2014
INTERVISTA A TEA FALCO
Ha un’arma segreta Tea Falco e se la porta sempre nella borsa. Un limone che arriva dal suo giardino catanese. Ogni tanto lo tira fuori e lo annusa, una leggera carezza e via di nuovo. «Tutte le mattine bevo succo di limone, per questo non mi ammalo mai» spiega sicura. Il frutto evidentemente esercita un potere taumaturgico non solo sul fisico. «Sto bene a Roma, ma a volte sento una nostalgia fisica del mare, come quelli nati in montagna che si sentono persi se l’orizzonte è troppo piatto». La incontriamo in via Margutta, fuori dagli studi dove Carlo Verdone sta dando gli ultimi ritocchi al suo Sotto una buona stella, in uscita il prossimo 14 febbraio.«Una commedia seria» la definisce il regista romano, ossimoro che fa molto ridere laventisettenne catanese. Esperienza agli antipodi dalle atmosfere di Io e te di Bernardo Bertolucci per cui è stata candidata come miglior attrice ai David di Donatello. La Olivia vitalissima e sciupona di Ammaniti e Bertolucci sembrava disegnata su di lei. Ma anche Verdone le ha scolpito addosso il ruolo di Lia. Una, nessuna, centomila, per citare un conterraneo illustre. Attrice ma anche fotografa, catanese ma anche un po’ romana, sofisticata ma pop, indipendente ma legatissima alla famiglia e alle radici. Bellezza antica e modernissima. Verve drammatica ma anche comica. «Far ridere è una delle cose più difficili. Nella vita sono buffa, ma sul set devi avere i tempi comici giusti. Con Bertolucci tutto era interiore, ogni azione meditata. Nella commedia è come se fosse tutto fuori da te, non pensiero ma istinto puro».
Nel film è Lia, la figlia del broker in rovina Federico Picchioni (Verdone), un padre assente che deve occuparsi all’improvviso dei due figli da sempre trascurati. Lei e Lorenzo Richelmy.
Sono sempre stata una fan di Carlo, Acqua e sapone è uno dei miei film preferiti. È capace di passare dal comico al drammatico. Come alcune commedie francesi o i film di Chaplin, che ti fanno ridere e ti lasciano addosso la malinconia. Anche Carlo è così. Dietro un grande sorriso si nasconde sempre un grande dolore. Per il personaggio mi sono ispirata a mia madre, ho scelto io il nome Lia. Fa la traduttrice dal francese e dall’inglese (mia madre invece è insegnante) e ha una figlia di tre anni, avuta da un uomo africano che se ne è andato. Scrive poesie, le dedica a lui. Interpretarla ha risvegliato in me il senso della maternità. Quando succederà sarà di certo una delle cose migliori della vita. Ora ho 27 anni, mia madre mi ha avuto a 29.
Ci sta pensando veramente?
No. Ora tocca alla fotografia che è la mia prima passione. La recitazione le toglie tempo, è un’osservazione su di sé e sugli altri ma senza macchina fotografica. Sul set accumulo idee e stimoli, un allenamento.
L’anno scorso ha esposto il suo lavoro alla mostra L’ermafrodita vitruviano alla galleria Pio Monti di Roma.
Sto lavorando a un’altra, titolo provvisorio La materia oscura. Saranno cento ritratti. Le donne con il loro volto e il mio corpo, gli uomini con quello del mio fidanzato (Ariens Damsi, ndr) che è un artista, canta scrive, suona. E studia economia. Un’anima divisa in due. I corpi saranno scontornati e bianchi, con dentro oggetti e animali che li identificano. Nella lista dei cento ci sarà anche Bertolucci. Mi ha detto che vuole essere un chicco d’uva.
Perché fotografa solo in bianco e nero?
Già la vita è a colori, tutto troppo de- finito. Come i film ad alta definizione. Meglio la pellicola o l’effetto pellicola che rimanda al sogno. Se no si svela tutto. Che gusto c’è poi?
Che effetto le ha fatto girare a Cinecittà?
Un grande fascino. È come se il trucco fosse svelato. Vedi scenografie reali poi alzi lo sguardo e c’è il cielo. Come in un grande teatro di burattini.
E l’andirivieni Roma/Catania come procede?
A parte il rifornimento di limoni, certo. Mi è capitato di sentirmi isolata a Roma, adesso ci sto benissimo, abito a Trastevere. Ma mi è venuta una gran-de voglia di viaggiare, Londra, Parigi. Forse per essere all’altezza di Lia che traduce dall’inglese e dal francese.
Suo padre si occupa di una onlus per il supporto di immigrati rumeni in Sicilia.
Si dà da fare per aiutarli a trovare un lavoro, a sottrarsi ai racket di chi gestisce gli arrivi. Lo fa con una spinta etica e morale. È molto cattolico. E lei? Io no, però non potrei dire che sono atea. Andrei contro me stessa. In che senso, scusi? Mi chiamo Tea, a-tea. (Ride di cuore, poi torna seria). Ho una mia religiosità, penso che siamo parte di qualcosa, di un unico essere vivente.
Spirituale, dunque. In compenso non degna di uno sguardo i biscotti al tavolo del bar dove siamo sedute. Dieta?
Mangio tantissimo, non mi controllo. Corro, se smetto ingrasso.
Ha girato un video per Franco Bat- tiato. Si sente legata alla scena musicale catanese?
Più che altro volevo fare la cantante a cinque anni. Mia madre mi diceva: piuttosto impara uno strumento. Ora sogno di interpretare una rocker.
In effetti sembra sempre uscita da un quadro anni ’70. Anche ora. I lunghi capelli biondi, il cappotto di lana pelosa bianco, gli stivali. Sugli schermi però la vedremo presto in versione anni Novanta, nella serie di Sky 1992, su Tangentopoli.
Mi sono divertita moltissimo a fare l’imprenditrice milanese, fredda e implacabile. Accento lombardo, voce nasale. Di Tangentopoli non sapevo molto. Una volta da bambina ero in macchina con mio padre e alla radio parlavano di Mani pulite. Gli ho chiesto che cos’erano. Mi ha detto: un giorno ti racconto. Adesso potrei spiegarglielo io.