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 2014  gennaio 21 Martedì calendario

DALLE SCARPE DI LAURO AL PORCELLUM

In principio fu la preferenza. An­zi, le preferenze. Quattro per la precisione. In un Paese in cui il fascismo aveva di fatto bandito per vent’anni ogni forma di elezione popolare, non parve vero agli ita­liani di aver conquistato, oltre il di­ritto a scegliere il partito, anche quello di poter ficcare il naso al­l’interno delle liste, decidendo chi doveva entrare in Parlamento e chi rimanere fuori.
Analogo spirito mosse i Padri Co­stituenti che diedero via libera, per la Camera, alla legge elettorale pro­porzionale con le preferenze, la n. 6 del 20 gennaio del 1948, rimasta in vigore fino al 1991. Non manca­rono anche a quell’epoca critici fe­roci del sistema delle preferenze. Tra questi don Luigi Sturzo che de­nunciava gli «effetti deleteri» che, in collegi troppo ampi, causava la corsa, anzi la guerra delle preferen­ze: «Il candidato – scriveva nel 1958 il sacerdote siciliano – è obbligato a girare tre o quattro province, a far­si conoscere e parlare e promette­re mari e monti in due o trecento a­bitati, correndo giorno e notte in automobile e spargendo con le sue mani grazie e con la sua bocca pro­messe ». Ma la ’Repubblica dei partiti’, co­me la definì con grande acume Pie­tro Scoppola, alle alte proteste di Sturzo rispose facendo spallucce. E il sistema delle preferenze continuò a vivere e a prosperare senza trop­pi scossoni. Dando vita a quel fe­nomeno dei signori della preferen­ze che ha portato con sé, fin dal 1948, voto di scambio, clientelismo, sperpero di denaro e corruzione. E di cui simbolo perenne diventaro­no le famose scarpe regalate dal­l’armatore e uomo politico napole­tano Achille Lauro ai suoi clientes: la destra prima del voto, la sinistra dopo, a consenso ottenuto.
Ma a ben vedere, non tutto era da buttare nel sistema preferenziale. Intanto – e non è poco – le prefe­renze rispecchiavano un pluralismo sociale che si riverberava all’inter­no dei partiti. I quali, nei confronti della società civile, erano molto più aperti e inclusivi di quelli odierni. E­vitavano, specie nei grandi partiti, la formazione di una classe diri­gente cortigiana, legata cioè solo al­la fedeltà al leader di turno. E con­sentivano una dialettica più corret­ta tra maggioranza e minoranza al­l’interno dello stesso partito. Man­tenevano infine un rapporto più forte, anche se a rischio degenera­zione, tra eletti ed elettori.
Ma a quest’ultimo proposito, per essere onesti, non vanno nemme­no dimenticate le formidabili de­nunce di Gaetano Salvemini contro il sistema di potere giolittiano, fat­to di corruzione, di lusinghe e di mi­nacce. Un sistema che prosperava nell’Italia meridionale prefascista proprio grazie al collegio uninomi­nale, mitizzato in Italia nei primi anni Novanta del secolo scorso.
Suo malgrado, la preferenza diventò proprio alla fine degli anni Ottanta anni il simbolo della partitocrazia e della corruzione. Non erano infatti le preferenze l’obiettivo primario del Movimento per la riforma elet­torale che si costituì del 1988 attor­no a Mariotto Segni. I referendari, infatti, avevano raccolto le firme su tre quesiti: il primo, per rendere più maggioritario il sistema del Sena­to, il secondo per estendere il mag­gioritario ai Comuni superiori ai 5mila abitanti e infine quello che riduceva le preferenze per la Ca­mera da quattro a una. Solo que­st’ultimo passò il vaglio della Corte Costituzionale. E quindi divenne, al di là del suo significato tecnico, il veicolo della protesta popolare con­tro la partitocrazia e Tangentopoli. In una memorabile domenica, era il giugno del 1991, il 65 per cento degli elettori italiani, quasi trenta milioni di persone, si recarono nei seggi per spazzare via le preferen­ze. La partita non ebbe storia: 95,6 per cento di favorevoli all’abolizio­ne, 4 ,4 contrari. E a pagarne il con­to fu specialmente Bettino Craxi che, da combattente tenace, aveva invitato gli elettori ad andarsene al mare. I democristiani, più furbe­scamente, avevano lasciato libertà di voto.
Ma un altro referendum era in ag­guato sulle sorti della Prima Re­pubblica: quello sul Senato del 18 a­prile del 1993. Quasi 37 milioni di votanti e 82, 7 di sì. La legge eletto­rale che le Camere approvarono sull’onda inarrestabile del referen­dum fu appunto il Mattarellum, concepito dall’esponente democri­stiano Sergio Mattarella. Si basava sui collegi uninominali anche alla Camera. Per cui l’elettore sulla scheda del suo collegio trovava un solo candidato per partito. Mentre per la parte del 25 per cento di ri­porto proporzionale, introduceva la lista bloccata. Era il requiem per le preferenze.
La nuova legge concepita da Cal­deroli, il malfamato Porcellum, non ha fatto altro che abolire i collegi u­ninominali e fare del listone bloc­cato, ossia dell’elenco di candidati decisa dalle segreterie dei partiti, la filosofia dell’intero sistema. Per quei paradossi, la guerra alle prefe­renze, condotta inizialmente contro la corruzione e la partitocrazia, ha finito per produrre il sistema più partitocratico della storia d’Italia. E se non fosse intervenuta la Corte Costituzionale con la recente sen­tenza, forse oggi saremmo ancora fermi al Porcellum.
La disputa sulle preferenze non si ferma però qui. Renzi e Berlusconi non vogliono reintrodurle, a diffe­renza dei partiti minori e di parte del Pd. Le motivazioni sono quelle di sempre: il rischio della corruzio­ne, del controllo del territorio da parte della criminalità organizzata, le spese elettorali dei singoli candi­dati. Il segretario del Pd, però, non vuole essere marchiato con l’epite­to di partitocratico. Per cui ai fau­tori delle preferenze risponde pro­ponendo le elezioni primarie ob­bligatorie per legge per decidere i candidati nel collegio. Il modello, l’unico sperimentato in Italia in tal senso, è quello delle ultime elezio­ni prima delle quali il Pd ha sotto­posto al vaglio di militanti e simpa­tizzanti tutte le sue candidature al­le elezioni politiche. Con risultati, specie al Sud, non sempre soddi­sfacenti.
Anche qui, a ben vedere, non c’è la panacea. Perché i traffici loschi, le folli spese elettorali, il controllo dei voti, stigmatizzati per le preferenze, possono, almeno sulla carta, avve­nire anche nella fase di scelta po­polare dei candidati.