Gianni Barbacetto, Il Fatto Quotidiano 20/1/2014, 20 gennaio 2014
LA DISCESA IN CAMPO REGIA
CRAXI&DELL’UTRI–
Il sorriso davanti alla telecamera addolcita da una calza da donna (“L’Italia è il Paese che amo”) nasce da un pianto sotto la doccia. Domenica 4 aprile 1993, pomeriggio. Ad Arcore c’è una riunione cruciale. Presenti Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Bettino Craxi, ormai raggiunto da dieci avvisi di garanzia e non più segretario del Psi. La racconta Ezio Cartotto, il democristiano milanese assunto già un anno prima come consulente da Dell’Utri, con l’incarico segreto di studiare nuove forme d’intervento in politica. “Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo, un qualcosa che possa unire gli elettori moderati che un tempo votavano per il pentapartito”, dice Craxi quel pomeriggio di primavera. “Con l’arma che tu hai in mano delle televisioni, attraverso le quali puoi fare una propaganda martellante, ti basterà organizzare un’etichetta, un contenitore. Hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso, ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti, e salvare il salvabile”.
SECONDO IL RACCONTO di Cartotto, Craxi ha già capito che il Psi e l’intero pentapartito sono finiti, inservibili. Il leader ferito da Mani pulite spinge l’amico a creare una nuova sigla, un nuovo “contenitore” da imporre con la potente “arma” delle tv. Berlusconi invece, almeno secondo il racconto di Cartotto, è ancora disorientato: “Sono esausto. Mi avete fatto venire il mal di testa. Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e che mi distruggeranno, che faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte. E diranno che sono un mafioso. Che cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia...”. Nei mesi successivi, avviene l’accelerazione che porterà a Forza Italia. Dell’Utri liquida i più blandi piani di Cartotto e impone il suo “Progetto Botticelli”: un partito fatto in casa. Convince l’amico Silvio che non c’è alternativa. E l’amico Silvio smette di piangere sotto la doccia e accetta di “bere l’amaro calice”. Così, il 26 gennaio 1994, pronuncia le parole fatidiche: “L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. Con una videocassetta autoprodotta e poi distribuita alle tv annuncia la sua “discesa in campo”.
Il biennio 1992-93 è, oltre che il più drammatico per la storia politica recente della Repubblica, anche il più duro nella storia imprenditoriale di Berlusconi. Finita la fase espansiva degli anni Ottanta, il mercato della pubblicità televisiva entra per la prima volta in affanno. Più in generale, per la prima volta si manifesta all’esterno la gravissima situazione debitoria in cui versano le aziende del gruppo Fininvest. Cominciano a circolare indiscrezioni giornalistiche. Un commentatore autorevole come Giuseppe Turani scrive che la Fininvest è addirittura in situazione prefallimentare. Dopo tante voci, nel 1993 la pubblicazione del tradizionale rapporto di Mediobanca sulle principali società italiane offre per la prima volta sull’argomento qualche cifra considerata attendibile. I debiti del gruppo Berlusconi, secondo Mediobanca, raggiungono nel 1992 quota 7.140 miliardi: 2.947 a medio e lungo termine, altri 1.528 di debiti finanziari a breve e 2.665 di debiti commerciali.
CIFRE PESANTI, e certamente peggiorate nel corso del 1993, anche per gli alti tassi d’interesse e la fine dell’aumento degli introiti pubblicitari (gli investimenti nel settore fanno registrare, nel primo semestre 1993, la prima “crescita zero” dopo lunghi anni di boom ininterrotto e di incrementi annui a due cifre). Ma anche fermandosi ai 4.475 miliardi di indebitamento finanziario calcolato da Mediobanca e mettendoli in rapporto con i 1.053 miliardi di capitale netto, si arriva facilmente alla conclusione che la Fininvest, nel 1993, ha 4,5 lire di debiti per ogni lira di capitale. La situazione d’allarme è immediatamente avvertita dalle banche più esposte con il gruppo Fininvest – Comit, Cariplo, Bnl, Banca di Roma, Credit – che intervengono su Berlusconi chiedendo il risanamento del gruppo. La prima risposta (di fatto imposta dalle banche) è la nomina di un manager con la fama di “duro”, Franco Tatò, ad amministratore delegato della Fininvest, con pieni poteri per andare a “mettere ordine” (testuali parole di Tatò) nella gestione e nelle finanze del Biscione. Di fatto, è un commissariamento.
Dal punto di vista del contesto politico è anche peggio. Nel 1992-93, l’inchiesta milanese di Mani pulite avvia quel processo che finisce con il mettere fuori gioco tutti i protettori e sostenitori di Berlusconi: innanzitutto Bettino Craxi, ma anche una parte della Dc e i “miglioristi” del Pci. Salta tutto il sistema di relazioni dentro cui Berlusconi ha potuto costruire e mantenere la sua posizione dominante sul mercato della tv e della pubblicità. Il rischio immediato è che venga messa in discussione la sua possibilità di detenere tre reti televisive.
C’è poi un terzo ordine di problemi. Il pool di Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo sta scoperchiando i rapporti di corruzione che legano politica e affari e Berlusconi sa che prima o poi arriveranno anche a lui. Anzi: le indagini di Mani pulite hanno già cominciato a lambire le sue aziende e i suoi uomini. Già nel 1992 il pool di Mani pulite indaga sugli appalti della Coge di Parma, un’impresa partecipata dalla famiglia Berlusconi. Nello stesso periodo, Paolo Berlusconi ammette di aver pagato una mazzetta di 150 milioni di lire a un dirigente della Dc per la gestione delle discariche lombarde. Il nome Fininvest viene fatto per la prima volta nelle indagini di Mani pulite dal senatore Dc Augusto Rezzonico, a proposito di una possibile tangente pagata nella capitale. Poi si aprono a Milano e a Roma inchieste sui palazzi venduti dalla famiglia Berlusconi al fondo pensioni Cariplo e ad altri enti pubblici. A Torino s’indaga sull’apertura di un centro commerciale alla periferia della città. Altri procedimenti giudiziari vengono aperti sul budget per la campagna pubblicitaria tv anti-Aids del ministero della Sanità; sul piano delle frequenze televisive assegnate alle reti di Berlusconi; sui finanziamenti irregolari concessi dalla Fininvest ai festival e ai congressi di partito; sulle false fatture e i fondi neri di Publitalia, la concessionaria di pubblicità guidata da Dell’Utri... Insomma: Berlusconi sente il fiato delle procure sul collo. I suoi uomini e le sue aziende sono già oggetto di inchieste giudiziarie da parte di tre procure: Milano, Roma e Torino. Sa che prima o poi toccherà anche a lui.
Ecco allora lo scatto. È in questo clima terribile – fine dell’espansione pubblicitaria, debiti galoppanti, caduta dei protettori politici, inchieste giudiziarie incombenti – che Berlusconi matura le decisioni più clamorose della sua vita. Come un giocatore di poker sull’orlo del tracollo, rilancia, rischia tutto, osa pensare l’impensabile. Invece di farsi prendere dal panico o di tentare qualche piccola reazione, punta tutta la posta, progetta le mosse che possono farlo tornare a vincere: “L’Italia è il Paese che amo...”.