F.Ch., Il Fatto Quotidiano 20/1/2014, 20 gennaio 2014
DOTTORE MI DEVE CURARE, SONO SCHIAVO DEL SESSO
Lamentele? Sì, effettivamente ce ne sono state... Ma non per quanto riguarda i nostri ospiti. E’ successo con un rehab molto più grande, un’altra realtà rispetto a Cliffside”. Non ha esitazioni, parlandone al Fatto Quotidiano, Constance Scharff, direttrice del settore ricerca sulle dipendenze alla clinica Cliffside, nel negare i problemi di ordine pubblico causati a Malibu da alcuni clienti delle cliniche: “non nel mio cortile”. Nel paese californiano, a dire il vero, tutti scaricano le responsabilità sugli altri. Ma trentacinque centri di riabilitazione non sono pochi, per una cittadina di 12.645 abitanti. E i disagi ci sono, come un’escrescenza inoccultabile in un angolo di America dove altrimenti regnerebbe una tranquillità tipicamente “wasc” (bianchi-anglosassoni-cattolici), fatta di vicinati sicuri, villette e candidi recinti. Un uomo nudo sul vialetto d’ingresso: è quanto si è trovato di fronte lo scorso aprile Rey Cano, un consulente immobiliare che vive a Sycamore Park, quartiere di Malibu. Lo sconosciuto era un cliente della clinica Passages. Cano gli ha lanciato una coperta e ha chiamato la polizia di Los Angeles perché lo venissero a prendere, prima che la propria giovane figlia tornasse da scuola e dovesse assistere alla poco edificante scenetta. La storia, riportata dal New York Times, bene illumina il problema di ordine pubblico che si sta verificando a Malibu. Promises, Summit, Milestones: tutti i centri di riabilitazione condividono nomi leziosi e ammiccanti, ma alcuni di essi (Passages ne è un esempio) hanno da tempo oltrepassato la capacità ricettiva originale, e i clienti vengono alloggiati in dependances aggiunte, sotto forma di villette, alla residenza principale, con gli immaginabili problemi di controllo. Uno dei pazienti, il cantante afroamericano Chief Keef - classe 1995 e già una discreta reputazione come utilizzatore di sostanze e pusher - ha provato Promises e poi è “migrato” verso un altro centro della Southern California, per la troppa attenzione mediatica ricevuta a Malibu. Al Cliffside, solo dodici posti letto al massimo dell’utenza e un coté di maggiore serietà e rigore, non hanno avuto di questi problemi. Qual è la patologia più frequente? Droghe, di ogni genere, e alcool, certo. Ma non si può non notare, nelle brochure di presentazione di quasi tutti i centri, il frequente riferimento alla sessualità compulsiva. “Possiamo parlare d’altro? Preferirei soffermarmi piuttosto sull’abuso di sostanze”, risponde cortese Scharff quando la si interpella a questo proposito. Eppure la cura dalla sessuomania è una delle prestazioni offerte da Cliffside... “Sì, ma tecnicamente non è una dipendenza riconosciuta dal DSM-5”, cioè la classificazione standard dell’Associazione psichiatri americani, “per questo la considererei semmai un disordine relazionale”, precisa Scharff, “un’incapacità di connettersi agli altri attraverso relazioni positive e reali”. Come accade a Brandon, protagonista di Shame, la pellicola di Steve McQueen in cui un adonico Michael Fassbender conduce una tristissima, gelida esistenza fatta di successo professionale e di progressivo isolamento, alla mercé delle proprie pulsioni anaffettive. “Solitamente il disordine ipersessuale è associato ad abuso di sostanze o comunque ad altre dipendenze”, spiega la dottoressa. “Anche perché, in tutta onestà, se ci fosse un caso di sola dipendenza sessuale quale bisogno avremmo di curarlo in un centro?” Eppure è ciò che ha fatto David Duchovny: si è fatto ricoverare al rehab, per quello che lui stesso aveva riconosciuto come un bisogno compulsivo di appagamento fisico (ironia della sorte, ha ricercato il ricovero proprio mentre vinceva un Golden Globe per un ruolo, interpretato nel film “Californication”, di un uomo affetto dalla medesima patologia). Mentre l’attore e produttore Russell Brand ha usufruito dei servizi della Keystone Clinic, vicino a Philadelphia. “La celebrità è come un biglietto di ingresso al discount del sesso”, racconta Brand nel libro “My Booky Wook”, con una dose di ironia che sconfina nella più disperata sincerità. Relazioni multiple, anonimato, orge: l’attore britannico ha deciso di farsi curare, e ha descritto il trattamento alla Keystone come molto duro, a volte stupidamente bigotto, comunque claustrofobico. All’atto di ricovero gli è stato fatto firmare una specie di contratto con il quale si impegnava esplicitamente ad evitare attività onanistiche, atteggiamenti seduttivi, e ovviamente qualsiasi contatto sessuale con altri pazienti. Il documento ammetteva esplicitamente: “potrai passare attraverso fasi di ansia molto elevata, come reazione alla disintossicazione”.
Cosa ne pensano, di tutto questo, a Malibu? Non esiste una componente di sacrificio, persino di sofferenza, nella riabilitazione e nel recupero? “No. Il trattamento, se è punitivo, non funziona”, ribatte, adamantina, Constance Scharff. “Le nostre terapie non sono dolorose. Se lo fossero, le persone rinuncerebbero. Il sacrificio, da noi, non gioca alcun ruolo nell’eliminazione delle dipendenze”.
F.Ch.