Filippo Santelli, la Repubblica 19/1/2014, 19 gennaio 2014
DAI GELATI ALLE SCARPE DA TENNIS QUANDO IL WEB DÀ ORDINI ALLE AZIENDE
Dopo l’annuncio, sui social network sono scattate rivendicazioni di ogni tipo. C’è chi rivuole il Tamagochi. Chi una reunion dei Pink Floyd. Chi assicura che perfino la riforma elettorale, ora, è possibile. Un gioco? «Anche la nostra campagna è partita così », raccontano Daniele Tinti e Alessandro Zolfanelli, 23enni studenti romani. «Era il 2011, mangiavamo un gelato ma non era buono come quello della nostra infanzia». «Ridateci il Winner Taco », il desiderio diventa pagina Facebook, una tra milioni. Solo che, migliaia di like dopo, loro ce l’hanno fatta. Algida li ha chiamati in anteprima: «Le ginocchia tremavano, non ci credevamo». Tutto vero, giovedì la società l’ha scritto sul suo profilo: tredici anni dopo essere sparito dai supermercati il biscotto confezionato, cialda panna e caramello, torna. A Roma, in riva al Tevere, ne è spuntato perfino un modello gigante.
Potere della Rete, far cambiare idea a una multinazionale come Unilever, di cui Algida è parte. Negli ultimi mesi la campagna dei due ragazzi aveva assunto proporzioni inattese, virali. Strategia da movimento Occupy, non fosse che qui erano in gioco preferenze alimentari e non diritti fondamentali: i fanatici del Taco commentavano con riferimenti all’amato gelato qualsiasi cosa Algida postasse sulla sua pagina ufficiale. «In gergo si chiama brand hijacking, i consumatori requisiscono un marchio e ne dirottano il significato», spiega Mirko Pallera, a capo della società di comunicazione Ninja Marketing.
I clienti in rivolta non sono una novità dell’era internet. Nel 1985 Coca-Cola lancia negli Stati Uniti la New Coke, con ricetta e grafica rinnovate. In pochi giorni piombano al quartier generale di Atlanta 400mila tra lettere e chiamate di protesta. Dura tre mesi. «In Rete però informazioni e reazioni arrivano in tempo reale», dice Pallera. Così all’americana Gap, nel 2010, bastano quattro giorni per capire che il nuovo logo non piace. Quei caratteri tozzi, il classico fondo blu sostituito da un anonimo bianco: sulla pagina Facebook piovono oltre 2mila commenti negativi. Si torna all’antico.
Per fortuna delle aziende, sul web si può anche anticipare, sondare. Qualche anno fa il Mulino Bianco della Barilla chiede alla comunità quale prodotto vorrebbe rivedere sugli scaffali. Risultato: i Soldini, merendine al cioccolato, tornano in produzione, seppur in edizione limitata. Quando di mezzo c’è il tifo, poi, gli animi sono più infiammabili. La Roma lo ha scoperto a maggio, dopo il lancio del nuovo logo con la scritta «Roma» al posto del rodato acronimo «ASR». Sulla piattaforma per petizioni Change. org la richiesta di ravvedersi raccoglie quasi 8mila firme. La società però tira dritto. E chissà se nel caso di Adidas l’inversione di marcia è stata pianificata o ingoiata. Le leggendarie scarpe da tennis Stan Smith, cult anche fuori dai campi, torneranno nei negozi quest’anno, dopo esserne uscite nel 2012. Particolare invece la protesta che sta subendo l’Nba, la lega americana di pallacanestro. Le magliette da gioco che stanno rimpiazzando le iconiche canottiere non piacciono ai tifosi. Ma a mobilitarsi sono stati gli stessi giocatori, capitanati dalla superstar LeBron James: «Siamo arrabbiati», ha detto. Subito appoggiato dagli 11 milioni e 300mila follower su Twitter. Ed è proprio di ieri il ritiro, dopo l’accusa di razzismo, di alcune confezioni della Haribo, caramelle a forma di orsetto, fatte come maschere tribali africane.
A Daniele e Alessandro, clienti come tanti, il call center Algida non aveva risposto. Si sono sfogati su Facebook, con creatività.
Un po’ di fotoritocco e il Taco è finito tra le mani di Steve Jobs o Papa Francesco. Finché i fan del gruppo, quasi 10mila, hanno iniziato a piratare il profilo della società. Tommaso Vitali, dirigente di Unilever Italia, nega che la marcia indietro sia forzata: «Abbiamo ascoltato i messaggi su internet e capito, anche con analisi di mercato, che l’interesse era reale». Fonti vicine all’azienda però raccontano di una strategia più subita che sposata, necessaria per riprendere il controllo della propria immagine. «È il primo caso in Italia in cui si cambiano politiche produttive per accontentare la comunità», commenta Davide Basile, animatore del blog di marketing Kawakumi. «Alla fine, però, sarà il mercato, non la Rete, ad avere l’ultima parola».