Sergio Rizzo, Corriere della Sera 19/1/2014, 19 gennaio 2014
PROROGHE E DECRETI SALVANO I «TRIBUNALINI» DAI TAGLI ANNUNCIATI
Doveva essere una stagione di rifo rme. Magari breve, ma incisiva. Rischia invece di essere segnata, anziché da quei grandi cambiamenti, dallo svuotamento di riforme precedenti. Prendiamo il taglio delle sedi distaccate dei tribunali. La riforma messa in campo nel 2012 dall’ex ministro della Giustizia del governo Monti, Paola Severino, prevede la soppressione di 30 sedi giudiziarie, 220 sezioni periferiche, 667 uffici del giudice di pace. L’obiettivo, recuperare 386 magistrati e risparmiare a regime 95 milioni l’anno: soldi di cui la macchina della giustizia, ingolfata da troppa sabbia negli ingranaggi, ha bisogno come il pane. Subito, però, esplodono le proteste dei municipi, dei politici locali, delle corporazioni e delle piccole lobby. Chi sbraita contro un taglio ritenuto ingiusto. Chi sospetta perfino attentati all’efficienza (già assai modesta) della magistratura. E chi, come a Modica e Bassano Del Grappa, lamenta non senza qualche ragione lo spreco di una sede nuova di zecca costata decine di milioni che non sarebbe mai stata aperta. Per non parlare delle guerre furibonde scoppiate fra i Comuni, come Melfi e Lagonegro.
Nemmeno quella norma che concede due anni di tempo per emanare eventuali decreti correttivi capaci di salvare alcune situazioni particolari serve a mitigare la determinazione degli oppositori. Ecco allora spuntare in Senato, appena un mese dopo il battesimo del governo delle larghe intese di Enrico Letta, un disegno di legge firmato dall’onorevole democratico Felice Casson, magistrato, con il proposito di rinviare per un anno almeno l’entrata in vigore della riforma. Una entrata a gamba tesa imprevista, mentre il ministero della Funzione pubblica si affanna a spiegare che una battuta d’arresto potrebbe creare il caos in una struttura enorme dove la nuova direzione di marcia era stata già imboccata. Niente, però, in confronto all’attacco sferrato da ben nove Regioni. Abruzzo, Marche, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Puglia, Basilicata, Campania e Calabria hanno chiesto alla Cassazione di poter svolgere un referendum sulla riforma dei tribunali. Non le ferma nemmeno il diluvio di decreti con cui l’attuale ministro Annamaria Cancellieri ha salvato decine di sedi giudiziarie tutte insieme, nell’agosto scorso, alla vigilia dell’ora X prevista per il 13 settembre. Da Abbiategrasso a Vigevano passando per Voghera; e poi Pinerolo, Ischia, Marano, Casoria, Lucera, Mondovì, Saluzzo, Casale Monferrato, Acqui Terme… Senza per questo evitare che 40 sindaci piemontesi riconsegnino polemicamente la fascia tricolore alla Prefettura di Cuneo per protestare contro l’esclusione del Tribunale di Alba dalla lista degli uffici scampati alla chiusura.
Finché, il 12 novembre 2013, arriva la decisione della Cassazione: il referendum si farà. È l’ultima, prima di andarsene in pensione, presa dal presidente della speciale sezione della Corte incaricata di pronunciarsi in materia, Corrado Carnevale. Decisione storica, perché non era mai accaduto nell’Italia repubblicana che un referendum venisse proposto, e con successo, dalle Regioni. In base all’articolo 75 della Costituzione, una consultazione popolare può essere chiesta da 500 mila cittadini o almeno cinque consigli regionali.
Il bello è che in quella occasione, mentre la domanda delle Regioni viene accolta, 650 mila firme non bastano a far passare i referendum sul lavoro targati Di Pietro, Sel, Verdi e Fiom. Né un numero addirittura doppio, oltre un milione trecentomila, può convincere gli ermellini a dare disco verde a quello per l’abolizione della diaria dei parlamentari.
Successo effimero, quello delle Regioni sul fronte referendario, visto che dopo essere stata accolta dalla Cassazione il 15 gennaio scorso la loro proposta viene bocciata dalla Corte costituzionale. E comunque l’offensiva non conosce soste. Il sindaco di Orvieto Antonio Concina si placa solo quando, il 3 dicembre 2013, la commissione Giustizia del Senato dà parere favorevole alla trasformazione del tribunale cittadino, che doveva essere chiuso, in sede distaccata di Terni. Aprendo la strada alla sua sopravvivenza. E venerdì 17 gennaio sorge un altro caso in un consiglio dei ministri già in piena fibrillazione politica. Annamaria Cancellieri, che si trova in Russia, fa recapitare un ulteriore decreto correttivo della riforma Severino che lascia in vita per cinque anni gli uffici giudiziari di Lipari, Portoferraio sull’Isola d’Elba e Ischia. Il provvedimento è inaspettatamente rinviato: le cronache parlano di contrasti con il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ma l’episodio denuncia quanto sia forte la pressione di chi ostacola quella riforma e quanto al contrario sia debole il fronte politico che dovrebbe difenderla. Il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura Michele Vietti dice con estrema chiarezza in una intervista a Donatella Stasio del Sole 24Ore che questo è il modo migliore per farla svanire del tutto: «L’eliminazione delle sedi distaccate è l’elemento tipico e caratterizzante di tutta la riforma, nella logica di sopprimere presidi che non avevano più ragion d’essere. Ma, come sappiamo, questo è il Paese delle deroghe e delle proroghe e una volta creato il precedente siamo tutti maestri nell’estenderlo a tante situazioni che stanno a cuore ad altrettanti campanili».