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 2014  gennaio 18 Sabato calendario

LA VERA STORIA DI PAPÀ FARINETTI FRA LOTTA PARTIGIANA E RAPINE


A Eataly, la catena di negozi per buongustai, il tema della Resistenza è particolarmente sentito. Il 25 aprile di qualche anno fa Oscar Farinetti tenne abbassate le serrande, annunciando la decisione con questo slogan: «Resistiamo chiusi». Sugli scaffali, tra le bottiglie di Barolo, ce n’è uno che si chiama «Resistenza» ed è prodotto nelle cantine della famiglia Farinetti. Per comprendere tanto amore per la storia partigiana, basta affacciarsi nell’area libri di Eataly, dove si trova un volumetto dalla copertina rossa: «Paolo Farinetti», sottotitolo «La leggenda del comandante Paolo e della XXI Brigata Matteotti». È la storia del papà di Oscar, un ragazzo del 1922 che partecipò da protagonista alla liberazione delle Langhe dal nemico nazi-fascista. Il libro racconta le sue gesta temerarie e quelle dei suoi compagni: del vicecomandante Bartolomeno Pelazza (classe 1920), del commissario politico Turi, al secolo Salvatore Zangara (1897), ferroviere siciliano, del suo vice Guido Bausola (1909), del comandante di battaglione Renato Boasso (1924), nome di battaglia René, del caposervizio Guido Revello (1921). Un’epopea storico-letteraria, «un’avventura ispirata a una virilità corsara», che ci accompagna sino ai festeggiamenti per il 25 aprile, in cui Paolo scese in piazza in barella, dopo essere stato ferito e miracolosamente sopravissuto.
Ma non tutti ad Alba concordano nel descrivere i partigiani della Brigata Matteotti, come un manipolo di eroi. Anzi qualcuno estrae dall’album dei ricordi un ritaglio di giornale, una copia della Stampa del 18 giugno 1946, che racconta l’altra faccia della Resistenza e, secondo loro, del comandante Paolo. In un riquadro si legge: «La rapina alle Ferriere Fiat: gli autori scoperti e arrestati». Nel testo si parla della scoperta di una «banda operante in grande stile con contrabbando di penicillina e rapine» nelle Langhe. L’articolo prosegue: «I rapinatori, ex partigiani, sono Paolo Farinetti, consigliere comunale di Alba, ex comandante di un gruppo Matteotti, Guido Bausola, Guido Revello, Renato Boasso». Alcuni dei nomi di punta della Brigata.
La storia è interessante e riguarda un periodo storico poco lumeggiato, quello immediatamente successivo alla fine del conflitto. Uno spicchio di tempo esplorato quasi in solitudine e con strascico di polemiche dal nostro Giampaolo Pansa. La ricostruzione dei fatti è la seguente: la mattina del 23 maggio 1946, un ex dipendente delle Ferriere Piemontesi, tal Modesto Lucco Borlera, «licenziato per sistematica inosservanza dell’orario di lavoro», insieme ai partigiani della Matteotti, organizza a Torino una rapina al mezzo che trasporta le buste paga Fiat destinate alle officine Nord, «per un complesso di 2.527.750 lire». Le cassette con il denaro in un primo tempo vennero trasferite su «un camioncino targato Cuneo». Secondo l’accusa quel mezzo è di proprietà di Farinetti, il quale «nel timore che fosse identificato, a servizio compiuto, lo abbandonò in una strada remota e quindi andò a denunciare in Questura che gli era stato rubato».
Oltre ai quattro partigiani già citati, finiscono alla sbarra con l’accusa di rapina aggravata anche Pelazza e Zangara. Ma perché gli imputati avrebbero compiuto l’assalto? Lo spiega l’edizione della Stampa di allora: «Gli imputati hanno dato una singolare versione, hanno detto di aver compiuto un’azione di guerra per quanto la guerra si fosse conclusa nell’aprile del 1945. Secondo loro lo stato di guerra continuava anche perché si era alla vigilia del referendum sulla monarchia. Essi dicono che temevano la sconfitta della repubblica e quindi un ritorno al fascismo. Perciò si erano procurati i fondi per un’azione di resistenza». Il cronista ironizza: «Con quei milioni avrebbero marciato alla riscossa. La Repubblica ha vinto, ma non è tornato alla Fiat che un milione circa». Secondo gli uomini della Squadra mobile che fecero le indagini i soldi «furono spesi buona parte in bagordi ».
Il 15 luglio 1947 ci fu la «vigorosa requisitoria» finale del «procuratore generale Villa, il quale, escluso il movente politico, versione dell’ultima ora» chiese pesanti condanne: per Farinetti 6 anni e 9 mesi e 13.500 lire di multa. Il giorno successivo i giudici della corte d’Assise stabilirono pene più lievi: Boasso e Pelazza vennero ritenuti responsabili di rapina semplice e condannati a 3 anni, Revello e Farinetti vennero incolpati di ricettazione e presero 2 anni e 8 mesi con pena condonata; Bausola 2 anni e sei mesi; il commissario Zangara, venne amnistiato, come previsto dalla legge Togliatti.
Quando Oscar Farinetti scopre che nel suo paese c’è chi rivanga quell’antica vicenda va su tutte le furie: «Mio padre è stato un personaggio strepitoso, un galantuomo e dopo quella condanna è stato assolto per non aver commesso il fatto e riabilitato. Era il comandante di 300 partigiani e alcuni di loro, dei lestofanti, hanno fatto quella porcheria e l’hanno messo in mezzo». L’archivio di Stato di Torino gli dà ragione e su una pagina ingiallita, è possibile verificare che Pelazza e Farinetti furono riabilitati, rispettivamente nel 1956 e nel 1960. Erano stati accusati ingiustamente dai vecchi compagni di lotta. Dai «lestofanti», come li chiama Farinetti. Ma il lato oscuro di questi resistenti fuori tempo massimo, nel libro sul comandante Paolo, non trova spazio. Ci sono solo le foto sorridenti di quei giovani, che da eroi si fecero banditi.