Francesco Costa, ultimouomo.com 20/1/2014, 20 gennaio 2014
NATO PRONTO
Il 18 gennaio 1997 allo stadio Vicente Calderón di Madrid si gioca la partita più attesa dell’anno: il derby. Alla fine del primo tempo l’Atletico Madrid è in vantaggio per 1-0 sul Real Madrid. Nell’intervallo si forma un capannello dentro lo spogliatoio del Real Madrid. I calciatori discutono di cosa è andato storto. Al centro del capannello c’è Clarence Seedorf, neo-arrivato centrocampista olandese, vent’anni. Fabio Capello, l’allenatore del Real Madrid, infuriato per come aveva giocato la sua squadra nel primo tempo, si avvicina al capannello, chiede urlando ai calciatori di cosa stessero parlando e continua a urlare, senza ascoltare la risposta. «Se la sai tanto lunga fai tu l’allenatore!», sbraita a Seedorf, e secondo la leggenda gli tira contro la sua giacca. Nel secondo tempo il Real Madrid ribalta il risultato, segna quattro gol—uno lo fa proprio Seedorf—e vince la partita.
Nel corso della sua carriera di calciatore, più volte una comprensione del gioco superiore alla media—unita a un’altrettanto grande incapacità di tenere per sé quello che ha in testa—ha creato a Seedorf incomprensioni e problemi. Nel 2001, quando giocava nell’Inter, un giornalista gli chiese quale fosse secondo lui la soluzione al problema della collocazione tattica di Recoba. Seedorf rispose in un modo che non avrà fatto piacere a Marco Tardelli, il suo allenatore dell’epoca: «Io ho in mente come dovrebbe essere impiegato Recoba, ma in questa squadra non faccio l’allenatore». Nel 2002, appena arrivato al raduno estivo del Milan, fu accolto male sia dai tifosi—pugni e sputi sui finestrini della sua macchina: veniva dall’Inter, si era fatto un po’ pregare—che dai suoi compagni. «Un diverbio dietro l’altro con i compagni di squadra», racconta Carlo Ancelotti nella sua biografia. «Clarence è uno che parla molto, anche di questioni legate al gioco: all’inizio, essendo un giocatore nuovo, questo suo modo di fare e di dire non era ben accetto. Lo consideravano uno sbruffone, un presuntuoso, uno che pensava di sapere tutto. Kaladze e Rui Costa non lo sopportavano. Arrivato a Milanello da appena qualche giorno, Seedorf voleva spiegare a Rui come si sta in campo e come si gioca a pallone. Non gli riconoscevano la leadership perché era una matricola del Milan, poi piano piano le cose sono migliorate. Perché in realtà, Clarence, un leader lo è. Un ottimo trascinatore dentro lo spogliatoio.»
Louis van Gaal, Fabio Capello, Carlo Ancelotti, Guus Hiddink, Sven-Göran Eriksson, Marcello Lippi, Jupp Heynckes e Vicente del Bosque hanno in comune almeno due cose. La prima è che sono tra i migliori allenatori di calcio degli ultimi vent’anni. La seconda è che tutti a un certo punto della loro carriera sono stati allenatori di Clarence Seedorf, che oggi ha 37 anni ed è il nuovo allenatore del Milan. Come Seedorf è diventato l’allenatore del Milan è una storia nella storia: contrariamente a quanto accade alla grandissima parte dei suoi colleghi, infatti, Seedorf è stato giocatore fino a un momento prima di diventare allenatore, letteralmente. Il Milan lo ha chiamato mentre era con la sua squadra, il Botafogo. Dove i suoi colleghi avrebbero organizzato giri di campo, saluti commossi e partite d’addio, lui si è limitato a convocare una conferenza stampa. Il contenuto: smetto di giocare a calcio, vado a fare l’allenatore. Un caso più unico che raro, ma che probabilmente ha una spiegazione: Seedorf in qualche modo faceva già l’allenatore. Ora inizierà a farlo sul serio.
Se da qualche anno la tecnologia ha cominciato a produrre analisi e dati sulla base dei quali valutare oggettivamente il valore di un calciatore, per un allenatore un sistema del genere forse non esisterà mai: parlano soltanto i risultati—neanche sempre—e Seedorf non ne ha. Fare previsioni sulla sua carriera è impossibile. Per quanto lo si possa considerare promettente e dotato, non sarebbe il primo allenatore promettente e dotato a fallire. Ciononostante possiamo dire con qualche certezza che seguire Seedorf da allenatore del Milan sarà da qui in poi una delle cose più interessanti del calcio italiano. E questo perché la sua storia ha tutti i requisiti di quelle dei predestinati, e le sue qualità sono quelle che da sempre si riconoscono ai grandi allenatori: smodata curiosità intellettuale e cultura calcistica, esperienza ad alti livelli, carisma, doti comunicative, capacità di lettura delle partite e di costruire relazioni positive con i calciatori. Se vincerà, sarà interessante vederlo vincere; se fallirà, sarà interessante vederlo fallire.
Il Suriname è una piccola repubblica dell’America del Sud, stretta tra le due Guyana e il Brasile, colonia olandese dal 1667 al 1954. Frederick Seedorf è figlio di uno schiavo liberato: “Seedorf” era il cognome del suo padrone, un tedesco. Nel 1979 la sua numerosa famiglia si trasferisce dal Suriname in Olanda: tra questi c’è suo figlio, Johann Seedorf, e c’è il figlio di suo figlio, Clarence, tre anni. Vanno a vivere nella zona di Almere, dove sta nascendo una nuova città. E giocano a calcio, tutti: Johann, Clarence, i vari fratelli man mano che nascono, suo cugino. A 10 anni Clarence viene notato dall’agenzia di talent scout di Johan Cruyff, che scoprì gran parte dei calciatori che fecero parte del grande Ajax degli anni Novanta: tre giorni alla settimana si trasferisce ad Amsterdam, seguito da allenatori, racconterà, «che insegnano la vita prima ancora che il calcio». Fa tutto l’iter delle squadre giovanili nell’Ajax. A 15 anni la sua famiglia rifiuta un’offerta del Real Madrid. A 16 anni, nel 1992, viene aggregato alla prima squadra e diventa il più giovane giocatore dell’Ajax a esordire in campionato. A gennaio del 1993 il suo nome compare per la prima volta su un giornale italiano: Repubblica lo definisce “l’universale Seedorf”, scrive che gioca da centravanti nell’under 18 olandese ed è stato schierato da terzino nel suo esordio europeo.
L’Ajax di quegli anni è una delle squadre più forti d’Europa. La allena Louis van Gaal, gioca con il 3-3-1-3 e a Seedorf—che calcia indifferentemente col destro e col sinistro e sa davvero fare tutto—capita di giocare ovunque, anche se il più delle volte viene schierato come vertice alto del rombo di centrocampo, cioè trequartista, oppure mediano a sinistra. Non è un gigante ma ha gambe forti e potenti, un’ottima tecnica di base e soprattutto la testa di uno che ha molto più di 17 o 18 anni. In tre stagioni gioca 90 partite e segna 11 gol; vince due campionati, una coppa e una supercoppa di lega; vince soprattutto la Coppa dei Campioni, battendo il Milan in finale a Vienna. È il 24 maggio 1995, Seedorf ha 19 anni appena compiuti. Due mesi dopo è a Genova, comprato dalla Sampdoria di Mantovani per 7 miliardi di lire. È discontinuo ma si fa notare, e conferma di essere un giocatore totale: un giorno i quotidiani scrivono che «ruba molti palloni, non sbaglia un lancio», un altro scrive che «ha giocato per tre, coprendo tutto l’arco dell’attacco, facendo il tornante e anche il difensore». Viene da un altro mondo, Sven-Göran Eriksson lo aiuta ad adattarsi. «Venivo da un paese dove le persone esprimono le loro opinioni. In Italia invece la mentalità di base è “zitto e corri”. Quando le cose vanno male, in Italia non si parla: si abbassa la testa e si lavora di più. In Olanda quando le cose vanno male ci si siede attorno a un tavolo a discutere finché non si trova una soluzione.» Alla fine della stagione Seedorf ha giocato 32 partite e segnato 3 gol. Fabio Capello vince lo Scudetto col Milan, si trasferisce al Real Madrid e se lo porta dietro, comprato dalla Sampdoria per 9 miliardi («Mi chiese personalmente di andare con lui, ero un ragazzino e per me fu molto importante»).
A Madrid Seedorf diventa un giocatore vero. In quattro stagioni e mezza gioca 159 partite e segna 20 gol. Gioca quasi sempre come mediano sinistro, a volte anche come esterno sinistro in un centrocampo a quattro. Il giorno della nascita della sua prima figlia segna un gol da 45 metri. I calciatori con cui interagisce di più sul campo sono Raúl, Redondo e Roberto Carlos. Vince una volta la Liga, vince di nuovo la Champions League—stavolta battendo in finale la Juventus, nel 1998—e una Coppa Intercontinentale. Poi però il Real si incarta: in panchina arriva Toshack che non lo vede, lui perde il posto da titolare e la società deve vendere dopo essersi svenata per comprare Anelka. Seedorf litiga con tutti e nel mercato invernale del 2000 viene ceduto all’Inter per 42 miliardi di lire.
È la prima Inter di Lippi, che ha preso in un colpo solo Vieri, Jugovic, Peruzzi, Di Biagio, Blanc, Panucci e Georgatos, e punta a vincere lo Scudetto. Non ci andrà nemmeno vicino, malgrado un grande inizio. Ronaldo a novembre si rompe per la prima volta il tendine rotuleo—se lo romperà di nuovo sei minuti dopo il suo ritorno in campo, in aprile contro la Lazio—e la squadra non ha una vera identità: gioca a volte col 4-4-2 e a volte col 3-4-1-2 o anche col 3-4-2-1. Seedorf nel primo caso viene impiegato quasi sempre come interno di centrocampo, a volte anche come esterno. È in questo periodo che comincia a porsi il problema della sua collocazione in campo, perché Seedorf dice che il suo ruolo ideale è il trequartista, il numero 10: e non ci gioca quasi mai. L’anno successivo Lippi va via subito; arriva Tardelli ma le cose non cambiano. Seedorf a un certo punto ne parla con la stampa. «Ho detto a Tardelli che vorrei giocare sempre trequartista. Io so fare un po’ di tutto e questo, paradossalmente, è stato un grosso problema per la mia carriera. Il calcio di oggi vive di specialisti.»
Da lì in poi la questione degli “specialisti” sarà un tema ricorrente nelle interviste di Seedorf. «Quando ho iniziato», dirà nel 2009, «ero in grado di giocare praticamente ovunque, quindi non sono diventato mai uno specialista. Avevo doti tecniche e sapevo anche dribblare. Avevo il tackle ma anche doti offensive. Avevo visione di gioco. Sapevo fare molte cose ma questo non mi rendeva particolarmente bravo in una sola di queste». Seedorf dice che facendo esperienza è riuscito poi a diventare uno specialista e conferma che il suo ruolo ideale è il trequartista, o il centrocampista offensivo. Con l’Inter continuò a essere schierato per lo più come esterno di centrocampo, Tardelli a un certo punto smise di farlo giocare, non ebbe grandi fortune l’anno successivo con Cuper. Al Milan, dove arrivò nel 2002 nel celebre e famigerato scambio con Coco, trovò la sua consacrazione definitiva: ma da mediano.
Carlo Ancelotti, che portò quel Milan alla vittoria in Champions League, la terza nella carriera di Seedorf con tre squadre diverse, ne era consapevole. «In quel Milan riuscimmo a raggiungere l’obiettivo perché giocatori di grande valore s’identificarono in un compito nuovo. Fu così che Seedorf, che aveva grandi qualità da trequartista, si adeguò a giocare da mediano sinistro, Gattuso da centrocampista si adattò a mediano destro e così via.» Quel Milan giocava sostanzialmente in due modi. Se giocava con il 4-3-1-2, Seedorf faceva il mediano a sinistra. Solo quando giocava con il 4-3-2-1, cosiddetto “Albero di Natale”, gli capitava ogni tanto di fare il secondo trequartista. Successe per esempio nella finale di Champions League del 2007 ad Atene, ma anche in quel caso gli toccarono dei compiti atipici: quando gli avversari avevano il pallone, il Milan si schierava di fatto con un 4-4-2 e Seedorf faceva l’esterno sinistro di un centrocampo con Ambrosini e Pirlo centrali e Gattuso esterno destro, con Kaká davanti in linea con Inzaghi. Quando il Milan recuperava il pallone, partiva una rotazione in senso orario: Gattuso, Pirlo e Ambrosini scalavano al centro, Seedorf si accentrava in avanti e Kaká, che era avanzato portandosi in linea con Inzaghi, indietreggiava sulla destra.
Seedorf sapeva fare tutto ma diceva di divertirsi, «alla lettera», solo giocando «da 10 classico dietro a due punte. Siccome non mi pagano per divertirmi ma per fare gli interessi della squadra, gioco più indietro». Che uno dei centrocampisti più forti e dotati degli ultimi 15 anni abbia giocato fuori ruolo per gran parte della sua carriera fa un certo effetto. Anche perché non si trattava soltanto di divertimento: Seedorf giocava effettivamente meglio nel suo ruolo. Oltre che la finale di Champions League di Atene, Seedorf gioca da trequartista—ma con davanti una punta invece che due—anche la partita precedente: quella che i tifosi del Milan ricordano come “la partita perfetta”. La semifinale di Champions League contro il Manchester United, il 2 maggio 2007. Il Milan deve recuperare il 3-2 subìto all’andata e Seedorf gioca quella che è forse la miglior partita della sua carriera: segna un gol, si muove magnificamente tra le linee avversarie contribuendo a disinnescare Giggs e sbilanciare la difesa dello United. Il Milan vince 3-0 sotto la pioggia e si guadagna la finale contro il Liverpool, rivincita della sconfitta di due anni prima a Istanbul. Rooney dopo la partita dice ai giornalisti che Seedorf è il calciatore più forte contro cui abbia mai giocato.
In quegli anni Seedorf lavora e studia per diventare più che un calciatore. Una giornalista che lo intervista lo descrive come «un supermanager-filantropo con mille idee in testa e che, in più, fa anche il calciatore». Parla sei lingue, apre un ristorante a Milano, fonda una scuderia motociclistica, diventa editore della rivista Sport Auto Moto, cura una rubrica sul New York Times, compra la squadra di calcio del Monza, disegna una linea di gioielli, fonda “Champions for Children”, organizza eventi di beneficenza insieme con Nelson Mandela, Desmond Tutu e Kofi Annan, gira un documentario su Robben Island per la BBC, apre una società di servizi per calciatori, la ON International, che fornisce ai suoi clienti consulenza legale, fiscale e commerciale. «La gente ha una strana percezione della nostra professione; in verità abbiamo un sacco di tempo libero. Quando siamo in ritiro, dobbiamo soltanto mangiare e dormire, dormire e mangiare. C’è chi impegna il resto del tempo attaccato alla console di videogiochi. Gli affari sono la mia PlayStation».
Seedorf resta al Milan dieci anni, dal 2002 al 2012, diventando un pezzo della sua storia. Vince uno Scudetto, una Coppa Italia, due Supercoppe italiane e due europee, un mondiale per club; e due Champions League, che lo fanno diventare l’unico calciatore ad aver vinto il massimo trofeo europeo con tre squadre diverse. Gioca 432 partite e segna 62 gol, molti di questi bellissimi, uno da 35 metri nel derby. Diventa il calciatore straniero con più presenze nella storia del Milan, ne diventa anche il capitano, piange dopo un’eliminazione dalla Champions League. I tifosi del Milan però non lo tratteranno mai come una leggenda, come un intoccabile, anzi: una parte della curva lo fischia con una certa costanza e gli affibbia soprannomi odiosi. Più che il razzismo, c’entra il suo essere un giocatore diverso, molto più intelligente della media—«supponente», «arrogante», dice chi non lo apprezza, e anche quelli che lo stimano lo chiamano «il professore»—e c’entrano le sue pause. Una volta ho letto su un social network: «Seedorf è il calciatore col delta più ampio tra quanto gioca bene quando gioca bene e quanto gioca male quando gioca male». Effettivamente in campo Seedorf ogni tanto sparisce. «Passeggia», dicono i suoi detrattori: gioca solo le grandi partite e non vuole «sprecare il talento» contro le piccole squadre. La versione di Seedorf: «All’Ajax ho imparato a intercettare i passaggi senza andare a pressare l’avversario, perché comunque avrei letto la traiettoria. Molti pensano che io sia pigro perché corro poco, ma corro quando serve».
Il rapporto con una parte dei tifosi si incrina e la situazione col passare del tempo si aggrava. Nel 2007, quando un tifoso della Lazio viene ucciso in un autogrill poco prima dell’inizio delle partite di Serie A, Seedorf rifiuta di indossare il lutto al braccio, come da insistenze degli ultras. «Non l’abbiamo fatto per la morte del fratello di Kaladze [rapito e ucciso in Georgia], non mi sembra giusto indossarlo per una persona che non conosciamo e non sappiamo perché sia morta. Quando andammo in campo non si sapeva nulla: chi fosse, cosa fosse successo. Niente.» Nel 2009 viene addirittura accusato di indossare le ciabatte in panchina durante il derby contro l’Inter, di aver così perso troppo tempo prima di dare il cambio a Gattuso e averne provocato l’espulsione. Nella sua ultima stagione al Milan, a 36 anni, con Massimiliano Allegri come allenatore, gioca molto poco. «Mi faceva giocare le grandi partite come quelle contro il Barcellona o la Juventus, poi mi lasciava fuori per quattro incontri. Ma alla mia età devi giocare sempre per mantenere un alto livello.» A quel punto Seedorf poteva ritirarsi—di cose da fare ne aveva—oppure andare a svernare in uno di quei posti dove vanno a giocare i campioni in pensione: Canada, Stati Uniti, Cina, Qatar. Seedorf va ad allenarsi per un po’ in Cina, poi negli Stati Uniti, alla fine va al Botafogo. In Brasile, in una squadra vera, in un campionato vero. Gioca benissimo. «Nel giro di nove mesi i giornalisti brasiliani hanno finito i superlativi», scrive Jack Lang su ESPN. «L’intelligenza di Seedorf si è dimostrata la sua arma migliore in quelle celebrate mischie da rugby che a volte passano per contrasti di gioco in Brasile. Dove altri giocatori cercano solo di avere la meglio in colossali battaglie fisiche, lui gioca semplice e si infila negli spazi. Gioca calmo come sa essere solo un calciatore al ventunesimo anno di carriera. Preferisce l’economia dei movimenti agli scatti. In un paese famoso per la caratura tecnica dei suoi calciatori, è sorprendente il vantaggio che possa darti un po’ di astuzia tattica.» Segna 24 gol in 81 partite—gioca 81 partite, a 36 anni—e in campo fa praticamente la seconda punta. Fa in tempo a vincere un Campionato Carioca e il premio come miglior giocatore del campionato, poi arriva la telefonata del Milan.
Insieme alla cultura sportiva e alla curiosità intellettuale, Seedorf ha un’altra caratteristica attribuita solitamente a molti di quelli che poi diventano grandi allenatori: un culto maniacale della precisione e dei dettagli. Da calciatore si allenava anche nel tempo libero, al punto che il proprietario della villa in cui viveva a Milano lo denunciò per i danni causati al parquet e ai marmi, avendo trasformato un salone in una palestra. Non fuma, non beve né alcolici né caffè («Mi fa schifo»). Ogni tanto si concede delle buffe derive bucoliche, per uno con le sue iniziative imprenditoriali—«Non mi piace andare in giro per negozi, preferisco camminare in un bosco»—ma ha un’ambizione gigantesca. «Quando ho vinto tre trofei non ero felice perché ne volevo quattro. Quando ho vinto il quarto ne volevo cinque. Quando vinci te la godi due mesi, poi non riesci a pensare ad altro che farlo di nuovo».
Tra gli addetti ai lavori l’opinione comune è che Seedorf sia nato allenatore, prima che calciatore. Al Botafogo una volta durante l’intervallo ha interrotto un’intervista a Vitinho, vent’anni, che secondo lui stava andando troppo per le lunghe. Bruno de Michelis, ex psicologo del Milan che ha seguito Ancelotti al Chelsea e al Real Madrid, dice che Seedorf parla per il 10 per cento come un calciatore, per il 70 per cento come un allenatore e per il 20 per cento come un amministratore delegato. «Non ho mai visto una personalità così forte.» Prandelli dice che Seedorf «non sbaglia mai: è un uomo di grande personalità, un grande intenditore che sa di calcio. Quando lo incontravo, aveva sempre l’opinione giusta sulla partita». Capello è andato a vedere il suo primo allenamento al Milan. Frank De Boer dice che «non fa nulla senza pensarci» e «già sa come vuole giocare».
«Ho un difetto», dice Seedorf, e se ormai avete capito che tipo di persona è, naturalmente non intende dire davvero che ha un difetto. «Cercare sempre di essere il migliore. Devo pensare così, perché se pensassi che non sarò bravo, perché iniziare? Voglio diventare il migliore allenatore del mondo. Iniziare da zero e costruire un’altra carriera.» Uno legge tutto questo e alla fine quasi si chiede se non sia troppo. Se la storia di Seedorf non sia troppo perfetta, se lui non sia troppo un predestinato, se sia ammissibile una vicenda sportiva apparentemente così lineare, da un successo a un altro fino all’arrivo atteso da mesi sulla panchina del club-più titolato-al-mondo. E si chiede anche se Seedorf non sia troppo sicuro di sé, qualità che storicamente tra gli allenatori ha prodotto sia grandi successi che grandi disastri, specie per essere uno che non ha mai allenato nemmeno una squadra primavera. Seedorf aggiunge che il suo modello è Phil Jackson, l’allenatore dei Chicago Bulls di Michael Jordan negli anni Novanta, e la cosa più saggia che dice sul suo essere allenatore è quella che non riuscirà a fare. «Prima di tutto serve lavorare.» Seedorf non ha il tempo. Il peggior Milan degli ultimi anni lo ha chiamato mentre era in Brasile a fare il giocatore: non ha avuto tempo nemmeno di dirigere un numero dignitoso di allenamenti prima del suo esordio da allenatore. Sì, ha studiato, ha fatto i suoi corsi, conosce il calcio, e d’altra parte nessuno potrà mai imputargli il fallimento di questa stagione, ma non può girare a vuoto, non può permettersi un rodaggio: è stato chiamato per dare «una scossa», nelle parole di Adriano Galliani, un inizio deludente rischierebbe di affossarlo prima ancora dell’inizio della prossima stagione. Ha un solo colpo in canna.
La fortuna è che conosce la situazione. Il calcio è uno sport di squadra ma da giocatore, specie negli ultimi anni della sua carriera, si è trovato più volte in circostanze del genere: quando si viene chiamati a sbrogliare una faccenda complicata e bisogna fare quasi tutto da soli. Una di queste avvenne il 14 marzo 2010. Partita di campionato tra Milan e Chievo Verona. Il Milan è secondo in classifica e sta rimontando sull’Inter. La partita però è ferma sullo zero a zero e un pareggio sarebbe la fine delle speranze. Seedorf è in panchina. Entra in campo quando la situazione è disperata, a 10 minuti dalla fine, e segna un gol pazzesco a tempo scaduto che fa venir giù lo stadio e permette al Milan di vincere. Prima che entrasse in campo l’allenatore, Leonardo, gli aveva chiesto: «Sei pronto?» Risposta: «Io sono nato pronto».