Paolo Griseri, La Repubblica 18/01/2014, 18 gennaio 2014
VIAGGIO NELLA CHRYSLER TARGATA FIAT DOVE GLI OPERAI INSEGNANO AI CAPI
DETROIT — L’operaio Tommi sorride felice di fronte alla lavagna che riporta il suo record. Ha ridotto del 75 per cento il tempo necessario a infilare sei piccole parti in uno schema. Il cronometrista Paul si complimenta e tutti gridano hurrà. L’esperimento è servito a far comprendere come si eliminano le pause inutili nel ciclo produttivo. Alla Wcm Academy di Warren, periferia di Detroit, dalle parti del ghetto di Eminem per capirci, il taylorismo lo insegna il sindacato. Una bestemmia fino a qualche anno fa in Italia: chi se lo immagina il delegato di fabbrica che prende i tempi ai colleghi? Mauro Pino responsabile della produzione di Chrysler illustra la storia dell’Accademia e spiega che «l’edificio è di proprietà dell’Uaw», il sindacato dei lavoratori dell’auto americana. Il Wcm, il World Class Manufacturing, il sistema produttivo che tante liti causò tra Marchionne e la Fiom, non è un’invenzione americana: «Qui da noi — spiega Pino, siciliano e cravatta della Ferrari — il Wcm lo ha portato la Fiat che lo usava fin dal 2004», cioè da quando lo introdusse Marchionne mutuandolo dai giapponesi. Il sistema delle pause ridotte, insomma, non è una stranezza del sindacato pragmatico degli States, è imported from Lingotto.
Solo che da questa parte americana dell’Atlantico, nella Fiat che verrà, o che comunque per un certo periodo sarà il motore principale del nuovo gruppo nato dalla fusione tra Torino e Detroit, i ruoli si confondono. All’Accademia del Wcm gli istruttori spiegano che «può accadere che siano i sottoposti a tenere un corso al capo su come migliorare l’efficienza del sistema produttivo». Perché qui le gerarchie sono per tradizione funzionali a migliorare la produzione e non il contrario, come spesso accadeva nella Fiat sabauda del secolo scorso. Anche oggi lo sforzo di omologazione delle due Fiat non deve essere semplice. Il 13 dicembre scorso, qui all’Accademy, si è svolta la cerimonia di premiazione degli operai e delle fabbriche modello, seguendo le rigide tabelle del sistema Wcm. Tappeto rosso e premiazioni in stile holliwoodiano per gli stabilimenti che hanno raggiunto il massimo del punteggio. In testa c’è quello, rinnovato, di Toledo, Ohio: i suoi dipendenti sono stati decisivi alle ultime elezioni presidenziali per la riconferma di Obama. Ma non è per questo, naturalmente, che hanno ottenuto il riconoscimento. La fabbrica è stata totalmente rinnovata per produrre la Jeep Chrokee, un modello su cui l’azienda punta molto. Tra le italiane, la fabbrica migliore è Pomigliano che non ha ottenuto il top (wcm benchmark) ma una molto dignitosa medaglia d’oro, il gradino immediatamente sotto. Di tutto questo sforzo per migliorare l’efficienza degli impianti e del sistema produttivo, il sindacato della Chrysler è orgoglioso: «La nostra forza lavoro ha abbracciato con entusiasmo il sistema Wcm, che ha avuto un ruolo decisivo nella rinascita di Chrysler», dice General Holifield, capo del sindacato Uaw-Chrysler.
E questo, in fondo, potrebbe essere uno dei nodi da sciogliere nei prossimi mesi, quelli dell’integrazione tra due gruppi con mentalità e tradizione di contrattazione tanto diversi. Fino ad oggi il sindacato Uaw ha saputo mantenere buoni rapporti con le diverse anime del sindacato italiano. Nel maggio scorso il leader, Bob King, ha partecipato al congresso della Fim. Nei prossimi mesi sarà presente a quello della Fiom.
C’è però un punto che accomuna le tute blu delle due sponde dell’Atlantico al di là delle storie e delle tradizioni culturali diverse. Al di là delle tradizioni culturali e ideologiche, conta soprattutto il lavoro. Basta andare a Jefferson North, quello che gli operai definiscono con orgoglio «l’unico stabilimento di auto nel comune di Detroit City». Qui ogni giorno si producono 1.000 Grand Cherokee e 200 Durango. Lavorano 4.500 persone ed è stato introdotto il turno di notte. Nella sala riunioni, dietro la parete con le foto di Obama in visita e la firma del Presidente su un cofano bianco, i responsabili dello stabilimento proiettano una diapositiva: «Nel 2005 — spiegano — producevamo 280 mila auto all’anno. Nel 2009, con la crisi, siamo scesi a 65 mila e temevamo di non risollevarci più. Oggi invece siamo a quota 325 mila». Che vuol dire investimenti e occupazione. Come è accaduto in Europa alla Maserati di Grugliasco e alla Fiat di Pomigliano. E come i dipendenti chiedono che accada in tutti gli stabilimenti italiani.