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 2014  gennaio 18 Sabato calendario

“IL MIO CAIMANO TRA JUNG E GIOBBE”


«Era scritto nelle stelle che l’Italia cadesse in mano all’Olonese redivivo». E come ha vinto? «Senza combattere, gli basta chinarsi e raccogliere», scrive il professore Franco Cordero. L’aveva definito Caimano. «Gran bestia sorniona: nuota sott’acqua, cacciatore inesorabile; inganna le prede; lo servono uccelli parassiti; apre le fauci e gli puliscono i denti mangiando i residui del pasto». «Con una frase mutuata da Jung (nelle riflessioni su Giobbe, dove schiuma Leviathan, formidabile rettile d’acqua), possiamo dire che non sia persona ma fenomeno biologico, o lo fosse, quando gli anni pesavano meno. Che gli manchi l’organo pensante, nonché quello dei giudizi morali, consta dalla sua epopea: fortunata lacuna, risparmia fatica e dubbi tormentosi, mentre le operazioni d’istinto gli riescono a meraviglia; in perfetto automatismo froda, falsifica, corrompe, plagia. Caso unico della sindrome nomofobica: le norme gli ripugnano; esistono affinché lui le vìoli con un vantaggio determinante nella corsa ai miliardi; così s’è fatto l’impero, dal niente alla classifica dei più ricchi al mondo. Nelle campagne elettorali lo rivedremo temibile pifferaio». L’Olonese era Jean David Nau, famoso bucaniere. Secondo parallelo impietoso, tale essendo l’intero libro, Morbo italico. Cordero è professore emerito nella romana Sapienza. La sua Procedura penale conta 18 edizioni. I non giuristi lo conoscono dagli articoli su Repubblica. Morbo italico racconta eventi, idee, persone, ad esempio dove compare Stendhal. Giorgio Napolitano, «quasi monarca», è un altro su cui l’autore tira puntuali conti (vedi l’indice dei nomi e argomenti), senza polemica d’Anticasta. «Il diavolo non sta solo negli eletti o nominati, vigendo l’orrendo Porcellum».
La classe dirigente è prodotto del popolo?
«Non riesco a pensarne una avulsa dalla base biologica dello Stato. Gli italiani mietono quel che seminano».
Siamo un popolo alla costante ricerca della mamma.
«Vecchia storia. In preda a convulsioni interne i Comuni appaltano tutela dell’ordine e giustizia a famiglie podestarili mediante contratti annuali o semestrali. Il protettore stabile diventa signore e in forma germinale la Signoria è già Stato, con qualche difetto genetico».
Italia discorde.
«Nella diagnosi machiavellica le manca un Principe: i papi non bastano alla coesione politica della penisola ma possono impedirla; né giova la prassi cattolica; i dogmi frenano lo sviluppo intellettuale. La controriforma alimenta vizi culturali. In etica rende poco l’idea d’una partita dell’anima comodamente giocabile. Avvenimenti attuali hanno radici lontane».
Berlusconi e i berlusconiani, a cui non concede scampo.
«Berlusconi è il fattore catalitico, nel senso chimico, d’una metamorfosi negativa. Dategli del materiale umano e distilla il peggio del quale costoro siano capaci. Nella sua dottrina l’animale uomo non merita rispetto: pensa poco, dimentica quasi tutto; puoi persuaderlo che gli asini volano. Dalle mie parti fiorivano curiosità, disputa, ironia, in un dialetto a forte nervo sintattico. In televisione passavano l’Odissea, Tolstoj, Mahler».
Professore, Anna Karenina l’hanno appena rifatta, ed esistono canali dedicati interamente alla classica. O lei ritiene che la tv generalista debba essere pedagogica?
«In qualche misura sarebbe bene che lo fosse. Le tv berlusconiane operavano una sistematica antipedagogia disintegrando pensiero, sentimento, gusto. In vent’anni s’era allevata l’audience convertibile in elettorato. A proposito d’idiosincrasie ereditarie, non dimentichiamo Giolitti, visceralmente malvisto perché ragiona freddamente: non declama, né spaccia illusioni; se l’Italia è gobba, tagliamole abiti su misura. In forma plebea, alla ribalta d’una farsa talvolta nera, Berlusco Magnus impersona filoni coltivati da Gabriele D’Annunzio, Tommaso Marinetti, Benito Mussolini. Giolitti è poco italiano, come Cavour, anche lui antipatico. Quanto piaceva Mussolini: mascella in fuori, occhi fissi, scatti epilettoidi, passo romano sotto vari addobbi (berretto da chauffeur, bombetta, cilindro, elmo, fez, torso nudo); scia, nuota, trebbia, balla, guida l’aereo et cetera».
Professore, veniamo a lei: quale fu il suo impatto coi libri?
«A 13 anni pativo il lutto materno: trauma profondo; d’un colpo passo da Salgari al saggio crociano su Pascoli; in pericoloso anticipo scopro lo Stilnovo, lingua rarefatta e geometrica. A quell’età avventure simili disturbano e l’affare sarebbe serio se non m’aiutasse il latino. Viene utile De bello Gallico. Greco e algebra dissipano i resti del morbus verborum. Nell’autunno 1943, quinta ginnasio, Puškin (La figlia del capitano) apre disparate letture (persino Chateaubriand, qualcosa dai Mémoires d’Outretombe). Nella Cittadella di Cronin scorre un eloquio facile e rettilineo. Lo scrivere non mi spaventa più».
La sua scrittura oggi è ricca, colta, ricercata.
«“Ricercato” nel senso in cui Petrolini qualifica il Gastone dell’omonima chanson? Speriamo di no. L’importante è che sia chiara: usare parole trasparenti, non una più del dovuto, tentando l’en plein ossia frasi che dicano tutto; e tacere quando non abbiamo niente da dire».
E com’è che un uomo come lei si è dedicato al diritto?
«Volevo fare il medico. Leggo roba in materia, ad esempio l’endocrinologo spagnolo Gregorio Marañon. In terza liceo, autunno 1945, condotto da Gino Giugni, metto piede nello Psiup cuneese (partito socialista d’unità proletaria), dove, incredibile dictu, tengo una conferenza, “Socialismo e cristianesimo”. Odiando l’oratoria, divento oratore del partito e lentamente svanisce la vocazione medica. L’idea galeotta, insinuata da un compagno senior, è che io abbia l’arte forense nei cromosomi, con aperture politiche. Né l’una né le altre. Dall’avvocatura passo alla cattedra universitaria, insegnando a Trieste, Milano (Università Cattolica), Torino, Roma, e faute de mieux, scrivo».
Quali sono i libri che ama di più?
«Me ne sono passati tanti in mano: vedi una straripante bibliografia nei Riti e sapienza del diritto, Laterza, 1981; o in Fiabe d’entropia, Garzanti, 2005. Siccome la domanda misura solo l’effetto emotivo nella mia piccola storia, rinominiamo Puškin e Cronin. Ce ne vuole un terzo? Sia James Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage (Il processo come situazione giuridica), o Hans Kelsen, Reine Rechtslehre (Teoria pura del diritto), tra le fonti del libro col quale 57 anni fa entravo nell’iter accademico».