Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 18 Sabato calendario

MANAGER E SINDACATI INSIEME COSÌ RIPARTE L’AUTO AMERICANA


«Prima della bancarotta del 2009 tutto questo non sarebbe mai successo». «Certo, non ci avrebbe visto in fabbrica insieme a collaborare in questo modo».
Fianco a fianco nel complesso industriale di Toledo, in Ohio, accanto alla linea di montaggio da cui escono quasi mille nuove Jeep Cherokee ogni giorno e che cercano di migliorare insieme, il direttore Chuck Padden e il delegato sindacale dello Uaw (United auto workers) Mark Epley sono l’immagine della nuova vita dell’auto americana e della scommessa che la Fiat ha fatto salendo nel giro di cinque anni dal 20 al 100% del gruppo Chrysler. Qui, nelle fabbriche americane che trainano la ripresa di Fiat-Chrysler, gli ingredienti sono un’economia che sta ripartendo, un solido patto sociale tra l’azienda e il potentissimo sindacato unico Uaw, ma anche un metodo di miglioramento continuo importato proprio dagli stabilimenti Fiat. Il Wcm, l’acronimo che significa World class management, creato dal Lingotto con i giapponesi all’inizio degli Anni 2000, «è un processo continuo - spiega Mauro Pino, vulcanico ingegnere siciliano che da Termini Imerese è approdato al quartier generale del gruppo Chrysler ad Auburn Hills come responsabile della manifattura e dello stesso Wcm per tutto il Nord America – che non finisce mai. Un sistema basato sulla riduzione sistematica di tutti i tipi di spreco con il contributo di tutti i soggetti e un rigoroso utilizzo di metodi e standard».

Nasce e si applica in fabbrica, il Wcm, ma si studia e si impara anche alla Wcm Academy di Warren, alla periferia di Detroit, che non a caso è ospitata dallo stesso sindacato nella sua scuola tecnica, con insegnanti scelti insieme da Chrysler e Uaw. Lavagne, sale riunioni e robot. Per capire come si possano rendere più efficienti gesti e procedure operai, tecnici, ingegneri e manager giocano con il Piccolo Chirurgo; per cercare soluzioni di automazione autoprodotte e a basso costo costruiscono una linea di produzione per go-kart o per bici giocattolo; per imparare la prevenzione del rischio indossano le cuffie e gli occhiali 3D e s’immergono in un filmato. Da qualche settimana c’è anche un grande camion in giro per gli stabilimenti americani: portava le auto Dodge alle gare del Nascar, è stato trasformato in scuola itinerante. E quest’anno una Wcm Academy aprirà anche a Melfi, da dove nuove produzioni andranno sui mercati internazionali. «Siamo partiti con quattro corsi e adesso ne abbiamo quarantacinque, più tutti quelli online – spiega Scott Tolmie, il canadese che guida i formatori dell’Academy – da noi sono passate in poco più di due anni oltre 7600 persone».
Verrebbe da paragonarlo a una sorta di religione laica della produttività, questo Wcm, con tanto di citazioni dell’amministratore delegato di Fiat-Chrysler Sergio Marchionne – «c’è qualcosa di immorale nello spreco» – che passano sullo schermo. Una religione applicata con rigore in tutti gli stabilimenti del gruppo, in qualsiasi parte del mondo, con punte di eccellenza in Polonia e a Pomigliano. «Ma qui all’Academy - avverte Pino - non ci sono preti che rimangono a vita. Tutti vengono dalla fabbrica per imparare o per risolvere un problema che hanno individuato, affrontandolo alla radice, e tutti tornano in fabbrica. E succede anche che qui siano gli operai a spiegare ai manager quali sono le cose da cambiare». Tanto che il metodo si sta affermando anche fuori dal mondo Fiat-Chrysler: lo usano tra gli altri la britannica Royal Mail e la Unilever, il colosso anglo-olandese dei prodotti di largo consumo.
In fabbrica, a Toledo, gli operai fanno vedere le innovazioni introdotte con i loro suggerimenti sulla linea della Wrangler: al posto dei cassoni con i componenti da montare che andavano scelti di volta in volta a seconda della versione, un kit messo direttamente all’interno della vettura sulla linea che contiene solo i componenti necessari per quell’auto; anche per strappare gli adesivi incollati sulle alette parasole o per montare il volante si è studiato come risparmiare qualche secondo alla volta e si cercano ancora nuove idee. Innovazioni continue che moltiplicate per numeri enormi su scala globale – gli stabilimenti si scambiano le soluzioni trovate – permettono risparmi nell’ordine di centinaia di milioni. «Siamo ben consapevoli di lavorare in un ambiente molto competitivo – dice Padden, che dirige i due stabilimenti di Toledo – e che la ricerca dell’efficienza deve essere continua. Questa settimana abbiamo preso 52 persone nuove. Incontrandole gli ho spiegato che i loro posti di lavoro devono essere qui per restare, sono un patrimonio per tutta la comunità». La nuova occupazione, anche se a salari ridotti rispetto a quelli dei vecchi assunti, come prevede un accordo firmato dalla Uaw con Chrysler già nel 2007, è uno degli aspetti più evidenti del rinnovato boom dell’auto. «Qui a Toledo – spiega ancora Padden – abbiamo raddoppiato i dipendenti nell’ultimo anno, superando le 4000 persone. Lavoriamo tre sabati su quattro e la domenica su base volontaria». Solo dai due impianti di Toledo nel 2014, dovrebbero uscire oltre 500 mila nuove Cherokee e Wrangler – nel 2009 erano meno di un terzo – contribuendo così a superare quella soglia di un milione di Jeep vendute entro l’anno annunciata in questi giorni da Marchionne. E sempre sotto il segno della Jeep, partirà quest’anno a Melfi la produzione della «piccola» di casa, assieme alla sua gemella Fiat 500X.
Anche dalla posizione di forza del mercato Usa ci si chiede se e quali saranno le conseguenze della completa fusione tra Fiat e Chrysler. «Non so ancora se qui ci saranno effetti», dice il sindacalista Epley a Toledo. La scommessa di Marchionne è, come ha spiegato lo stesso ad, quella di un’integrazione positiva di esperienze e mercati tra i quattro poli – Europa, Usa, America Latina e Asia – del gruppo con uno spazio di crescita per gli stabilimenti italiani, che dovranno servire il settore «premium» nel mercato globale. Più auto italiane nel mondo, insomma, ma anche più consapevolezza che si lavora in un mondo aperto.
In casa Chrysler dirigenti e operai dicono che questa consapevolezza l’hanno acquisita anche con la loro storia molto americana di uno che cade e subito prova a rialzarsi: dopo la bancarotta, l’intervento pubblico e poi l’ingresso della Fiat adesso i conti – e i dipendenti – tornano. Lo stesso sta succedendo all’intera Detroit, la capitale dell’auto americana, che proprio la crisi del settore ha costretto alla maggiore bancarotta municipale degli Usa, con debiti stimati tra i 9 e i 18 miliardi di dollari. Ora prova a ripartire proprio grazie al nuovo boom dell’industria automobilistica. Questi giorni del Naias, il Salone americano dell’auto, sono stati per la città un banco di prova abbastanza confortante. E anche i preziosi quadri europei del Detroit Institute of Art, già prezzati dal Comune per un’eventuale vendita – è la speranza degli ultimi giorni – alla fine potrebbero restare qui.
«Prima della bancarotta del 2009 tutto questo non sarebbe mai successo». «Certo, non ci avrebbe visto in fabbrica insieme a collaborare in questo modo».
Fianco a fianco nel complesso industriale di Toledo, in Ohio, accanto alla linea di montaggio da cui escono quasi mille nuove Jeep Cherokee ogni giorno e che cercano di migliorare insieme, il direttore Chuck Padden e il delegato sindacale dello Uaw (United auto workers) Mark Epley sono l’immagine della nuova vita dell’auto americana e della scommessa che la Fiat ha fatto salendo nel giro di cinque anni dal 20 al 100% del gruppo Chrysler. Qui, nelle fabbriche americane che trainano la ripresa di Fiat-Chrysler, gli ingredienti sono un’economia che sta ripartendo, un solido patto sociale tra l’azienda e il potentissimo sindacato unico Uaw, ma anche un metodo di miglioramento continuo importato proprio dagli stabilimenti Fiat. Il Wcm, l’acronimo che significa World class management, creato dal Lingotto con i giapponesi all’inizio degli Anni 2000, «è un processo continuo - spiega Mauro Pino, vulcanico ingegnere siciliano che da Termini Imerese è approdato al quartier generale del gruppo Chrysler ad Auburn Hills come responsabile della manifattura e dello stesso Wcm per tutto il Nord America – che non finisce mai. Un sistema basato sulla riduzione sistematica di tutti i tipi di spreco con il contributo di tutti i soggetti e un rigoroso utilizzo di metodi e standard».

Nasce e si applica in fabbrica, il Wcm, ma si studia e si impara anche alla Wcm Academy di Warren, alla periferia di Detroit, che non a caso è ospitata dallo stesso sindacato nella sua scuola tecnica, con insegnanti scelti insieme da Chrysler e Uaw. Lavagne, sale riunioni e robot. Per capire come si possano rendere più efficienti gesti e procedure operai, tecnici, ingegneri e manager giocano con il Piccolo Chirurgo; per cercare soluzioni di automazione autoprodotte e a basso costo costruiscono una linea di produzione per go-kart o per bici giocattolo; per imparare la prevenzione del rischio indossano le cuffie e gli occhiali 3D e s’immergono in un filmato. Da qualche settimana c’è anche un grande camion in giro per gli stabilimenti americani: portava le auto Dodge alle gare del Nascar, è stato trasformato in scuola itinerante. E quest’anno una Wcm Academy aprirà anche a Melfi, da dove nuove produzioni andranno sui mercati internazionali. «Siamo partiti con quattro corsi e adesso ne abbiamo quarantacinque, più tutti quelli online – spiega Scott Tolmie, il canadese che guida i formatori dell’Academy – da noi sono passate in poco più di due anni oltre 7600 persone».
Verrebbe da paragonarlo a una sorta di religione laica della produttività, questo Wcm, con tanto di citazioni dell’amministratore delegato di Fiat-Chrysler Sergio Marchionne – «c’è qualcosa di immorale nello spreco» – che passano sullo schermo. Una religione applicata con rigore in tutti gli stabilimenti del gruppo, in qualsiasi parte del mondo, con punte di eccellenza in Polonia e a Pomigliano. «Ma qui all’Academy - avverte Pino - non ci sono preti che rimangono a vita. Tutti vengono dalla fabbrica per imparare o per risolvere un problema che hanno individuato, affrontandolo alla radice, e tutti tornano in fabbrica. E succede anche che qui siano gli operai a spiegare ai manager quali sono le cose da cambiare». Tanto che il metodo si sta affermando anche fuori dal mondo Fiat-Chrysler: lo usano tra gli altri la britannica Royal Mail e la Unilever, il colosso anglo-olandese dei prodotti di largo consumo.
In fabbrica, a Toledo, gli operai fanno vedere le innovazioni introdotte con i loro suggerimenti sulla linea della Wrangler: al posto dei cassoni con i componenti da montare che andavano scelti di volta in volta a seconda della versione, un kit messo direttamente all’interno della vettura sulla linea che contiene solo i componenti necessari per quell’auto; anche per strappare gli adesivi incollati sulle alette parasole o per montare il volante si è studiato come risparmiare qualche secondo alla volta e si cercano ancora nuove idee. Innovazioni continue che moltiplicate per numeri enormi su scala globale – gli stabilimenti si scambiano le soluzioni trovate – permettono risparmi nell’ordine di centinaia di milioni. «Siamo ben consapevoli di lavorare in un ambiente molto competitivo – dice Padden, che dirige i due stabilimenti di Toledo – e che la ricerca dell’efficienza deve essere continua. Questa settimana abbiamo preso 52 persone nuove. Incontrandole gli ho spiegato che i loro posti di lavoro devono essere qui per restare, sono un patrimonio per tutta la comunità». La nuova occupazione, anche se a salari ridotti rispetto a quelli dei vecchi assunti, come prevede un accordo firmato dalla Uaw con Chrysler già nel 2007, è uno degli aspetti più evidenti del rinnovato boom dell’auto. «Qui a Toledo – spiega ancora Padden – abbiamo raddoppiato i dipendenti nell’ultimo anno, superando le 4000 persone. Lavoriamo tre sabati su quattro e la domenica su base volontaria». Solo dai due impianti di Toledo nel 2014, dovrebbero uscire oltre 500 mila nuove Cherokee e Wrangler – nel 2009 erano meno di un terzo – contribuendo così a superare quella soglia di un milione di Jeep vendute entro l’anno annunciata in questi giorni da Marchionne. E sempre sotto il segno della Jeep, partirà quest’anno a Melfi la produzione della «piccola» di casa, assieme alla sua gemella Fiat 500X.
Anche dalla posizione di forza del mercato Usa ci si chiede se e quali saranno le conseguenze della completa fusione tra Fiat e Chrysler. «Non so ancora se qui ci saranno effetti», dice il sindacalista Epley a Toledo. La scommessa di Marchionne è, come ha spiegato lo stesso ad, quella di un’integrazione positiva di esperienze e mercati tra i quattro poli – Europa, Usa, America Latina e Asia – del gruppo con uno spazio di crescita per gli stabilimenti italiani, che dovranno servire il settore «premium» nel mercato globale. Più auto italiane nel mondo, insomma, ma anche più consapevolezza che si lavora in un mondo aperto.
In casa Chrysler dirigenti e operai dicono che questa consapevolezza l’hanno acquisita anche con la loro storia molto americana di uno che cade e subito prova a rialzarsi: dopo la bancarotta, l’intervento pubblico e poi l’ingresso della Fiat adesso i conti – e i dipendenti – tornano. Lo stesso sta succedendo all’intera Detroit, la capitale dell’auto americana, che proprio la crisi del settore ha costretto alla maggiore bancarotta municipale degli Usa, con debiti stimati tra i 9 e i 18 miliardi di dollari. Ora prova a ripartire proprio grazie al nuovo boom dell’industria automobilistica. Questi giorni del Naias, il Salone americano dell’auto, sono stati per la città un banco di prova abbastanza confortante. E anche i preziosi quadri europei del Detroit Institute of Art, già prezzati dal Comune per un’eventuale vendita – è la speranza degli ultimi giorni – alla fine potrebbero restare qui.