Mariano Maugeri, Il Sole 24 Ore 18/01/2014, 18 gennaio 2014
LE MANI SULLA RICOSTRUZIONE DELL’AQUILA
Ci sono morti leggeri come piume, altri che pesano come montagne. L’Aquila è ancora sotto gli effetti venefici della scossa di magnitudo 6.3 che la notte tra il cinque e il sei aprile 2009 rase al suolo interi palazzi e seppellì 309 persone. Macerie fisiche e morali si sommano e spesso si sovrappongono, fino a delineare un’antropologia lontanissima dall’homo novus che ci si auspicava emergesse dalle rovine del sisma di cinque anni fa. La grande bruttezza dell’Aquila è una sequenza anonima di circonvallazioni sulle quali scorre l’esistenza di cinquantamila abitanti eternamente intrappolati nelle loro automobili.
Il vecchio centro storico, orgoglio della città rinascimentale, è come il generale Custer a Little Bighorn, strangolato da un labirinto di tangenziali. Le 19 new town della premiata ditta Bertolaso-Berlusconi come biglie gettate su un campo. Le zone bianche, aree a vincolo decaduto, quegli interstizi urbani che andrebbero ricuciti all’anarchia edilizia post-terremoto, commissariati dal Tar nell’attesa vana di un disegno urbanistico che il sindaco Massimo Cialente, rieletto due anni fa, ha declassato in coda ai suoi innumerevoli impegni mondani e politici, malgrado il vecchio piano regolatore risalga al 1975. I permessi di 36 mesi per le tremila casette di legno costruite su terreni agricoli da chi aveva avuto la casa distrutta in attesa di proroga o sanatoria.
Al caos urbanistico segue coerentemente quello organizzativo e politico. Con un paio di assunti fondamentali. L’Aquila è un maso chiuso con dieci famiglie egemoni e un triumvirato politico a cui è toccato in sorte di gestire 12 miliardi di aiuti che secondo le proiezioni più attendibili entro il 2019 lieviteranno fino a 60. Il verbo che li unisce tutti è il seguente: "La ricostruzione è cosa nostra". Le tangenti e le inchieste tardive della magistratura (le ipotesi di reato che hanno portato all’incriminazione di nove persone risalgono all’indomani del sisma) sono il precipitato di un’approssimazione e di una serie di incompatibilità tutt’altro che casuali. Tutti gli uomini di Cialente, insomma, medico pneumologo, ex deputato del Pds e sindaco riassunto recentemente part time all’Asl dell’Aquila, di cui è dipendente, con una laconica motivazione: «Lo stipendio da primo cittadino non mi basta». La moglie, tanto per non confondere le idee, pure lei dipendente della Asl e promossa per meriti indiscutibili acquisiti sul campo.
Che fa il sindaco squattrinato? All’indomani del sisma nomina delegato alla ricostruzione il consigliere di opposizione ed ex assessore alla Cultura Pierluigi Tancredi. Cialente viene sommerso da migliaia di sms di aquilani inferociti (nel 2009 la soglia di indignazione era altra cosa rispetto al disincanto di oggi). Tancredi, conscio di questa reazione popolare, si dimette da consigliere e diventa broker della Steda, la ditta di Daniele Lago, l’imprenditore veneto che da settimane narra ai sostituti della Procura i segreti inconfessabili sul giro di tangenti in Comune. Di meglio ha fatto Ermanno Lisi, geometra libero professionista con un’attività privata incentrata sulla ricostruzione edilizia che Cialente nomina assessore alle Opere pubbliche nella sua prima giunta.
Ci vuole una legge scritta dall’ex ministro Fabrizio Barca che riprende una vecchia norma del terremoto dell’Irpinia per sancire (il governo Berlusconi all’indomani del sisma era stato colto da temporanea amnesia) il divieto di ricoprire incarichi politici e attività economiche configgenti con quel ruolo. Se non sono incompatibili, i Cialente’s boy sono uomini d’apparato del Pd. Valga per tutti il vicesindaco Roberto Riga, poi passato all’Api di Rutelli, quello che avrebbe intascato 10 mila euro di tangente. Dice un consigliere comunale che vuole rimanere anonimo: «Quando ho sentito dell’arresto di Riga non mi sono stupito affatto. Certe attitudini del vicesindaco erano chiare a tutti». Riga, per non sbagliare, ha affidato la sua difesa a Carlo Benedetti, avvocato molto noto in città nonché presidente del Consiglio comunale. Un ruolo di garante che mette in forte imbarazzo il primo cittadino qualora decidesse di costituirsi parte civile.
Al vicesindaco va affiancata di diritto Stefania Pezzopane, la lillipuziana, ma solo per la statura, ex presidente della Provincia ed ex assessore comunale immortalata mentre trotterella accanto a uno spaesato George Clooney tra le rovine dell’Aquila. Innalzata allo scranno di senatrice, la Pezzopane, soprannominata superstefy, ringhia contro il ministro della Coesione Carlo Trigilia che ha osato criticare il dimissionario Cialente. Ma invece di sollevare la questione a Palazzo Madama sceglie il consiglio comunale all’Aquila, un luogo politicamente ininfluente. La sua scelta politica che tutti ricordano? Il bonus bebè di mille euro per altrettante puerpere. L’errore più grande: aver bollato Matteo Renzi come uno di destra tranne poi iscriversi tra i renziani più sfegatati. Se questa è la classe dirigente, perché stupirsi di Mario Di Gregorio, detto il puntellatore, che decideva a suo piacimento a quale ditta affidare direttamente gli incarichi a prezzo pieno e blindato (senza gara non c’è ribasso) per ingabbiare strutture più o meno pericolanti? Il controvalore è stato calcolato in 180 milioni, sui quali, ipotizzano gli inquirenti, gravavano tangenti dal 10 al 20 per cento.
Il maso chiuso aquilano ha le sue liturgie e i suoi sacerdoti. Laici e cattolici. La Chiesa, insieme al Comune, è l’altro grande attore della ricostruzione. Papa Bergoglio ha inviato il vescovo di Latina Giuseppe Petrocchi che si somma al vescovo ausiliare Giovanni d’Ercole, vicino al cardinale Bertone, e a Giuseppe Molinari, arcivescovo emerito che celebrò i funerali delle vittime del terremoto. In ballo c’è l’aspirazione della Curia a ottenere lo status di soggetto attuatore della ricostruzione di chiese, basiliche e conventi, un protagonismo osteggiato dal sindaco che sull’argomento ha scritto una lettera di fuoco al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Tre vescovi, il sindaco squattrinato in una città sommersa dall’oro, la senatrice lillipuziana e dieci famiglie d’alto bordo in costante collegamento con la Capitale. La Regione Abruzzo, che peraltro va al voto tra qualche mese, brilla per sua vacuità. Vaticano, palazzo Chigi, Csm e Viminale sono i veri terminali della politica aquilana. C’è sempre una benedizione romana su ogni scelta-chiave del capoluogo abruzzese. Era così prima del terremoto, lo è ancor di più di questi tempi per una serie di comprensibili motivi.
La partita dei 60 miliardi muove interessi giganteschi. All’Aquila sono in molti a pensare che Cialente, alla fine, non si dimetterà. È lui che tesse la ragnatela degli interessi in lotta tra loro per assicurarsi un posto in prima fila nella spartizione del bottino. La strategia, il metodo, un’azione trasparente di governo non interessano nessuno. Quei 309 morti, molti dei quali studenti di Ingegneria e Medicina travolti nel sonno da una valanga di cemento, archiviati in fretta e furia in nome di un futuro che non si annusa neppure. Le città felici si assomigliano tutte, quelle infelici lo sono ognuna a modo suo, direbbe Leone Tolstoj. L’Aquila è molte cose, tranne che una città felice.