Angela Zoppo, Milano Finanza 18/01/2014, 18 gennaio 2014
NEL CLUB DELLO SHALE
Mentre in North Dakota e Texas la terra continua a tremare sotto i colpi incessanti del fracking, la tecnologia impiegata per frantumare lo scudo d’argilla che imprigiona lo shale gas, altri Paesi stanno correndo a sfruttare questa fonte non convenzionale che ha cambiato gli equilibri del mercato energetico. Dominio statunitense a parte (gli Usa si apprestano a diventare autosufficienti in termini di approvvigionamento), nell’anno appena cominciato ci saranno parecchie sorprese. L’Argentina, per esempio, si candida ad avere un ruolo crescente nella geografia dello shale gas, che potrebbe portarla al secondo posto nella classifica dei produttori: si prevede che quest’anno nelle pampa verranno perforati ben 200 pozzi. Chevron e Dow Chemicals sono partner del gruppo statale Ypf (quello che Baires ha nazionalizzato togliendolo a Repsol), Wintershall di Gpn (Gas y Petróleo del Neuquén), ma il colpaccio l’ha messo a segno Shell, che sta per iniziare le attività nei campi giant di Vaca Muerta.
Segue, a parecchia distanza ma con buone chance di rimonta, la Cina, con 90 pozzi, poi l’Australia con 25, mentre la Russia condivide il terzo posto con l’Arabia Saudita, con 20. Quest’ultima vorrebbe cominciare alimentando con i gas scisti una centrale da 1.000 Mw. L’Arabia fa parte, infatti, di quel club di nazioni che cercano così di arginare il declino fisiologico delle fonti tradizionali o di fronteggiare la crescita dei consumi interni, ciascuna secondo le proprie forze e dimensioni. La Cina, appunto, promette di sviluppare gli scisti su larga scala. Potrebbe avvantaggiarsene anche Eni, partner di Cnpc nell’esplorazione del blocco Rongchang, nel bacino di Sichuan. Ci sono poi altre nazioni che, seppure con numeri più contenuti, quest’anno proseguiranno o inaugureranno le attività di drilling: l’India, appena autorizzata a testare i primi cinque dei 30 pozzi programmati al 2015, la Colombia (5), l’Egitto (7), la Turchia (5), e poi Romania, Danimarca e Tunisia con un pozzo ciascuna. Australia e Colombia in particolare hanno adottato un modello che prevede accordi a breve termine con i piccoli proprietari terrieri delle aree potenzialmente ricche di shale gas. I contratti, che possono avere come controparte anche i big ExxonMobil, Shell e ConocoPhillips, contemplano un’opzione: se le esplorazioni iniziali hanno successo vengono prolungati, incrementando durata e attività. È una formula che ricorda quella usata negli Usa ma non nei Paesi della Ue, disparità che irrita l’ad Eni Paolo Scaroni, grande fan dello shale gas. Algeria, Messico, Sudafrica e Regno Unito resteranno invece su livelli modesti, benché a voce i rispettivi governi si dichiarino sostenitori dello shale. Così anche l’Ucraina, dove c’è Eni, che col partner Cadogan sta partendo con le trivellazioni nel bacino di Lviv.
Guardando oltre l’orizzonte temporale del 2014, ecco altri Paesi impazienti di frantumare le preziose ma ostiche argille. Indonesia e Vietnam avvieranno nei prossimi mesi gli studi di fattibilità, il Sudafrica si prepara a offrire le prime licenze, l’Uruguay ha già avviato i test in alcuni bacini.Talvolta, però, gli entusiasmi si raffreddano e le compagnie si ritrovano a fare dietrofront. Dalla Polonia, per esempio, stanno uscendo in tanti: le stratificazioni dei potenziali pozzi si sono rivelate impenetrabili quasi quanto le leggi a tutela dell’ambiente, facendo desistere giganti come ExxonMobil ed Eni, e le mid-cap Talisman e Marathon. Chevron ha preferito rinunciare alla gara per alcune licenze di esplorazione offerte dalla Lituania.
Stando all’ultimo World Energy Outlook, ci sarebbero 137 bacini di gas non convenzionale distribuiti in 41 Paesi. Ma restano numerosi ostacoli per lo sviluppo dei giacimenti e, si legge nel rapporto Weo, «replicare il successo degli Stati Uniti non sarà né facile né veloce». Dopo i brindisi e i fuochi d’artificio, perciò, secondo gli analisti arriverà un bagno di realismo. Per questo la Iea (International energy agency) ha creato un forum mondiale sulle best practice da adottare per lo sviluppo dello shale gas. La prima riunione si è tenuta nel marzo scorso e la prossima è attesa in primavera.
Insomma, non è ancora tempo che lo shale gas mandi in pensione le altre fonti di energia convenzionali. Resisterà, ed è ancora la Iea che lo dice, la più povera e tradizionale di tutte: il carbone. Al 2035, secondo l’agenzia, la domanda potrebbe crescere del 59% e tra appena tre anni, nel 2017, potrebbe verificarsi il sorpasso sul petrolio. Come ricorda Andrea Clavarino, presidente di Assocarboni, l’anomalia è tutta italiana: nel mondo, il 41% dell’energia elettrica è prodotta dal carbone, in Europa la quota scende al 33% ma è in Italia che precipita, fermandosi al 12%, inferiore alla quota delle rinnovabili (si veda altro articolo in pagina) che è del 20%. Il motivo sta anche nell’impopolarità di questo combustibile, che non guadagna punti nemmeno davanti alle moderne tecnologie che abbattono le emissioni inquinanti. In Italia nove centrali a carbone su 13 sono certificate Emas, il riconoscimento ambientale di standard europeo, più severa rispetto alla Iso 14001. Spicca quella di Enel a Torre Valdaliga. Tra i progetti più innovativi c’è quello targato sempre Enel nella centrale Federico II di Brindisi, con un impianto pilota di cattura e sequestro della CO2. L’Enea, con Ansaldo Energia e Sotacarbo, porta avanti una ricerca sulla gassificazione del carbone del Sulcis con separazione della CO2 e produzione di idrogeno, mentre Enel ha ultimato un progetto altrettanto innovativo a Venezia.
Curiosamente, stando ai dati elaborati da Assocarboni, molti dei Paesi che guideranno la crescita del carbone sono gli stessi votati anche alla causa dello shale gas, soprattutto Cina e India. Fanno eccezione gli Stati Uniti, dove lo sviluppo del gas non convenzionale ha messo sotto pressione i prezzi delle altre commodity. Secondo il rapporto del World Resources Institute (WRI) di Washington, nel mondo spunteranno circa 1.200 nuove centrali a carbone con una capacità totale installata di 1,4 milioni di MW. I paesi interessati sono 59, dieci dei quali in via di sviluppo: Cambogia, Repubblica Dominicana, Guatemala, Laos, Marocco, Namibia, Oman, Senegal, Sri Lanka e Uzbekistan.