Lucia Capuzzi, Avvenire 19/1/2014, 19 gennaio 2014
DA DUE ANNI IN PAKISTAN. «BASTA AL SILENZIO SU LO PORTO»
«Aiutateci, siamo in difficoltà». L’ultima traccia di Giovanni Lo Porto è racchiusa in quel plurale impiegato da Bernd Muehlenbeck nel video appello recapitato da ignoti alla tv pachistana Dunya News e da questa trasmesso. «Possono ucciderci in qualunque momento», diceva un provato Muehlenbeck nei 52 secondi a sua disposizione prima che la registrazione si interrompa. Era il 22 dicembre 2012. Poi il buio. Nessuna notizia. Nessuna indiscrezione. Niente. La luce si è spenta sulla vicenda dei due cooperanti sequestrati esattamente due anni fa a Multan, nel Punjab, lungo il turbolento confine tra Pakistan e Afghanistan. Quel giorno, quattro uomini armati hanno fatto irruzione nell’edificio dove Giovanni, siciliano all’epoca 36enne, e Bernd, tedesco di 59 anni, vivevano e lavoravano insieme ad altri due operatori umanitari. Il gruppo si occupava della ricostruzione di case nella zona, devastata dall’alluvione del 2010, per conto della Ong Welt Hunger Life (Aiuto universale contro la fame). Lo Porto era a capo del progetto dall’ottobre 2011. Fino a quel fatidico 19 gennaio.
I malviventi hanno puntato contro lui e il tedesco una pistola, li hanno costretti a indossare il “shalwar kameez”– abito tradizionale locale – e li hanno caricati in auto. Poi, sono sfrecciati via, verso dove non si sa. I taleban pachistani – ovvero il gruppo estremista Tehrik e-Taleban Pakistan ( Ttp) – accusati in principio del rapimento, hanno sempre smentito. «Non li abbiamo noi», hanno ripetuto in una serie di comunicati. Di sicuro, finora, non è arrivata alcuna rivendicazione o richiesta di riscatto per i due. Un silenzio opprimente. Contro cui familiari, amici, colleghi di Lo Porto hanno deciso di ribellarsi. Il Forum nazionale del terzo settore ha lanciato su Change.org la petizione «#vogliamogiovannilibero»: l’hanno già firmata circa 50mila persone. Alcune adesioni sono arrivate da Canada, Gran Bretagna, Libano, Germania, Francia, Israele, Danimarca, Usa. Oggi parte la seconda fase della campagna: ogni giorno, nella pagina della petizione, Change.org pubblicherà decine e decine di foto, inviate dal pubblico per il cooperante. Una catena di solidarietà per far sentire alla famiglia che non è sola. «Chiediamo al governo italiano che ogni possibilità sia praticata, anche scelte più impegnative, che garantiscano sempre la sua incolumità, perché Giovanni torni libero», ha detto Pietro Barbieri, portavoce del Forum nazionale del terzo settore. I coordinamenti delle Ong – Aoi, Cini, Link2007, Concord Italia, Agire – hanno inviato, nel giugno 2013, una lettera al ministro degli Esteri, Emma Bonino, per sollecitare il massimo impegno delle istituzioni per la liberazione di Lo Porto. Ad ottobre, un secondo appello è stato lanciato al presidente, Giorgio Napolitano, e al premier, Enrico Letta. In entrambi i casi, le istituzioni – Farnesina in primis – hanno garantito di stare facendo il massimo sforzo per risolvere positivamente il caso. Piccoli segni che alleviano, per quanto possibile, il dolore della famiglia. «È una lunga, estenuante, angosciosa attesa quella che stiamo vivendo. Ogni giorno, speriamo che arrivi una telefonata sulla liberazione di Giovanni. Abbiamo fiducia nelle istituzioni, che stanno lavorando, e speriamo che Giovanni ritorni ad essere libero nel più breve tempo possibile – ha affermato Valeria De Marco, amica e portavoce dei genitori –. Il calore della solidarietà che migliaia di persone ci fanno sentire in questi difficili momenti ci aiuta a mantenere forte la speranza».