Ilaria Maria Sala, La Stampa 18/1/2014, 18 gennaio 2014
ADDIO A ONODA, IL GIAPPONESE PER CUI LA GUERRA FINI’ SOLO NEL 1974
Addio a Onoda Hiroo, il proverbiale «ultimo dei giapponesi», morto il 16 gennaio a Tokyo a 91 anni, di broncopolmonite: il più fedele dei soldati dell’Impero del Sol Levante, per il quale la Seconda guerra mondiale è durata fino al 1974.
Onoda, infatti, ufficiale delle forze speciali dell’Esercito Imperiale, addestrato nei servizi segreti, aveva ricevuto nel 1944 il compito di andare a Lubang, un’isola non lontano da Luzon, nelle Filippine, per impedire lo sbarco degli americani, che si pensava da lì avessero l’intenzione di invadere il Giappone. L’ordine era di non arrendersi in nessun caso, di non suicidarsi, e di continuare a sabotare il nemico e le sue operazioni aspettando rinforzi. E così fu, per trent’anni.
Tutti i segnali che la guerra era finita vennero interpretati da Onoda come «trappole» tese dal nemico per far capitolare chi, come lui, resisteva agli attacchi, e che i volantini che venivano gettati fra gli alberi che confermavano la fine del conflitto mondiale facessero parte della guerra psicologica americana per indebolire le difese dei combattenti giapponesi.
Del resto, spiegò Onoda una volta ritrovato, erano scritti in un giapponese sgrammaticato e contenevano numerosi errori di fatto. Lui perciò si era convinto che fossero stati scritti da emissari di un governo fantoccio impiantato dagli americani a Tokyo e che le truppe del Sol Levante stavano ancora combattendo, proprio come stava facendo lui. Onoda riuscì perfino a ignorare i pochi quotidiani su cui gli capitò di mettere le mani - paracadutati nella giungla dalle autorità allertate dell’esistenza di giapponesi ancora combattenti -, decidendo che erano falsi con fini propagandistici.
Sia Tokyo sia Manila, a cui era giunta voce dell’esistenza di questi fedelissimi, avevano cercato di far giungere loro la voce della fine delle ostilità e della resa del Giappone, ma le ricerche furono interrotte nel 1959 decidendo che chi non era stato ancora ritrovato oltre quella data era sicuramente deceduto.
Invece sull’isola, insieme a Onoda, c’erano altri tre soldati giapponesi, come lui pronti a resistere fino all’ultimo, che si erano impegnati in modo saltuario in azioni militari contro le forze filippine o anche contro abitanti dell’isola. I suoi commilitoni rimasero uccisi in un confronto a fuoco con l’esercito filippino nel 1972, nel corso del quale Onoda stesso venne catturato. Riuscì però a fuggire, e per altri due anni continuò a restare fedele alla sua missione di lottare per l’Imperatore, nascondendosi nuovamente nella giungla. Del resto i frequenti voli di aerei militari americani sopra la sua testa contribuivano a rafforzare la sua convinzione che la guerra fosse ancora in corso. Non aveva modo di sapere che quegli aerei stavano combattendo tutta un’altra guerra, quella fra l’America e il Vietnam.
Il suo addestramento nei servizi segreti era stato chiaro: non bisognava credere a nessuna informazione che non fosse giunta direttamente dai propri superiori. Il resto andava messo costantemente in dubbio.
Non di meno, in patria si era andata creando una leggenda intorno alla sua esistenza. Nel 1974 Onoda venne infatti ritrovato da Suzuki Norio, un viaggiatore giapponese che si era messo sulle sue tracce: ma nemmeno lui riuscì a fargli accettare che la guerra era finita. Per convincerlo, fu necessario ritrovare il suo comandante Yoshimi Taniguchi, fortunatamente ancora vivo, che gli diede il contro-ordine: Onoda finalmente poteva arrendersi.
L’immagine di un magrissimo Onoda che usciva dalla giungla pieno di dignità, indossando una divisa vecchia di trent’anni, la spada da samurai in mano, fece il giro del mondo e diede per l’appunto origine al detto «l’ultimo dei giapponesi», rendendolo una celebrità. Appena atterrato, in televisione gli chiesero a cosa avesse pensato per i trent’anni in cui era durata la sua resistenza nella giungla, Onoda rispose: «A eseguire gli ordini».
Ma adattarsi a un mondo che non aveva mai nemmeno immaginato si rivelò, sulle prime, piuttosto difficile. Poco dopo aver lasciato le Filippine, Onoda decise di trasferirsi in Brasile, dove uno dei suoi fratelli maggiori aveva un ranch in cui allevava bestiame. Poi nel 1984 tornò in patria, e dopo aver letto alcuni articoli su atti di violenza compiuti da giovani disadattati, fondò campi di addestramento per ragazzi per insegnare le tecniche di sopravvivenza che gli avevano consentito di non morire nella giungla nutrendosi di banane, noci di cocco e animali selvatici.
Scrisse un libro di memorie, intitolato (ovviamente) «Non mi arrendo: la mia guerra dei trent’anni», e tornò a Lubang nel 1996, per chiedere scusa alla popolazione delle sue incursioni armate (che costarono la vita a trenta persone) e donando una somma di denaro per la creazione di un fondo per le scuole dell’isola.
È rimasto famoso fino all’ultimo: appena qualche mese fa è uscito il suo ultimo libro, «Ikiru» (Vivere), e ha rilasciato interviste ai media fino a poco prima di essere ammesso in ospedale. Ha sempre detto di non aver rimorsi, e di non essersi mai rammaricato degli anni trascorsi nella giungla: aveva ordini da eseguire e quella era la sola cosa che contasse.