Christian Raimo e Marco Mancassola, Rolling Stone giugno 2012, 17 gennaio 2014
Raimo >> Con un po’ di spietata tenerezza uno alle volte si chiede: perché esiste una generazione di persone (in cui potrei essere compreso anche io) che in nome di un fantasma di riconoscimento sociale accetta di scrivere per un giornale a 3 euro a pezzo, insegnare a centinaia di persone all’università per un euro a semestre, si danna l’anima per un dottorato senza borsa, non batte ciglio di fronte alla proposta di pagarsi di tasca propria un tirocinio? Poi, se alla tenerezza subentra un po’ più di ferocia contro se stessi, ci si può anche chiedere: come campa questa gente? Come va al cinema? Come si compra il cellulare nuovo? Come va in vacanza? L’impressione che si ha, frequentando molti di quei trentenni iperformati di cui l’Istat condanna almeno un 30% alla disoccupazione, è che in Italia esista una sorta di welfare dello status
Raimo >> Con un po’ di spietata tenerezza uno alle volte si chiede: perché esiste una generazione di persone (in cui potrei essere compreso anche io) che in nome di un fantasma di riconoscimento sociale accetta di scrivere per un giornale a 3 euro a pezzo, insegnare a centinaia di persone all’università per un euro a semestre, si danna l’anima per un dottorato senza borsa, non batte ciglio di fronte alla proposta di pagarsi di tasca propria un tirocinio? Poi, se alla tenerezza subentra un po’ più di ferocia contro se stessi, ci si può anche chiedere: come campa questa gente? Come va al cinema? Come si compra il cellulare nuovo? Come va in vacanza? L’impressione che si ha, frequentando molti di quei trentenni iperformati di cui l’Istat condanna almeno un 30% alla disoccupazione, è che in Italia esista una sorta di welfare dello status. Una serie di famiglie di pensionati o prepensionati che finanziano finché possono il limbo di questi post-laureati con redditi da fame pur di conservargli una forma in vitro di credibilità. Mamma e papà pagano l’assicurazione per la macchina, la frizione se si rompe, l’Ipad al compleanno, il dentista… alimentando una specie di grande bolla illusoria che le cose andranno meglio, che prima o poi un contratto per loro figlio arriverà, e intanto il loro figlio può non mendicare al lato della strada, chiedendo qualche spiccio per curarsi una carie dolorosa. E anche questa allucinazione di massa che ha fatto sì che oggi rivendicazione di diritti, sindacalizzazione siano pratiche obsolete, se non inimmaginate. Quello che si vuole spesso non sono i soldi, ma uno status. Si vuole essere giornalisti, ricercatori universitari, psicologi… e poco importa se tutto questo non porta reddito. Ci si convince di essere dei professionisti, si inanellano attestati su attestati, ci si lamenta, si va da uno psichiatra (pagato dai genitori anche questo), si guarda una puntata di Presa diretta che ci fa sentire simili a molti nostri coetanei; mentre organizzarsi costerebbe fatica, denunciare a un giudice del lavoro che il contratto come partita Iva in realtà è solo una copertura per un rapporto di dipendenza ormai decennale sarebbe una grana che nessuno si vuole accollare. Eppure qualcuno, che preferisce a questo limbo un purgatorio in cui allo sconto della pena corrisponda almeno un passaggio del tempo, c’è. Non è un caso che negli ultimi mesi stiano nascendo varie piccole associazione di difesa del lavoro precario, della condizione free-lance: l’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato, l’associazione dei giornalisti Errori di stampa, il sindacato traduttori Strade, i lavoratori dello spettacolo al Valle… Un sacco di gente che invece di inveire contro il destino ha deciso di prendere una macchina del tempo e tornare alla fine dell’Ottocento, a parlare di cassa di mutuo soccorso, diritti per la maternità, no agli straordinari fatti sulla stanchezza. Forse non sarà per questa generazione, ma magari alla prossima viene fuori qualcuno che butterà là parole tipo sciopero, lotta di classe, o addirittura, rivoluzione… Mancassola >> …e ricordo quando la gente si iscriveva in massa a Scienze della Comunicazione. Le università offrivano corsi di laurea dai nomi esotici e fantasiosi e c’era chi contava di vivere facendo il ricercatore in cultural studies, discipline della moda o quant’altro. Scrivere per un magazine patinato. Iscriversi alla Scuola Holden e sfornare romanzi postpostmoderni. Fare carriera in uno studio di progettazione creativa o più classicamente essere un archeologo, un filologo, un professionista di una disciplina umanistica. Mentre attendeva l’inizio di una carriera, la maggioranza viveva grazie ai sussidi dei genitori o all’appartamento affittato di una nonna. Altri si mantenevano nei call center, sperando di restarci poco. Il verbo della creatività di massa dominava e il capitalismo avanzato prometteva che tutto era possibile: un tenore di vita decente, e l’espressione delle proprie aspirazioni. Succedeva trenta, venti, dieci anni fa. Oggi sappiamo che non era per nulla capitalismo avanzato – era il rantolo finale e illusorio del capitalismo avariato. Un sistema economico in panne, in costante assetto d’emergenza, non sa che farsene di masse di giovani intellettuali. Non ha tempo, non ha risorse, non ha progetti. Nonostante le belle parole e i richiami periodici sull’importanza di cultura e ricerca, la produzione sembra essersi scollata dalla cultura. Intere generazioni di lavoratori cognitivi e di creativi, di persone preparate a lavorare con il cervello, sono diventate superflue. Ed è sempre un pessimo segno, quando masse di persone diventano superflue. Ora, sapete com’è la crisi. È una signora dai modi un poco bruschi. La crisi chiede agli operai di rinunciare a parte dei loro stipendi e tutele – ovvero di ricordarsi che sono solo miseri operai, non parte del ceto medio come a lungo erano stati illusi. Mentre in parallelo chiede ai lavoratori intellettuali, sempre più, di lavorare gratis. Proprio gratis. Il problema passa dunque dalla parte degli intellettuali precari. I ricercatori, i giornalisti, i creativi, i giovani architetti, i redattori e tutti gli altri. Perché in tanti accettano di lavorare in assenza di reddito o in condizioni impossibili? Per passione o disperazione. Perché non si vede alternativa possibile. Perché continuando a fare ciò che sono cresciuti desiderando di fare, sperano di resistere come soggetti. Anche se ormai l’unica ricompensa è il numero di like quando linkano a Facebook il loro ultimo lavoro. Per anni ti è stato detto: è tuo destino e diritto avere un lavoro legato alle tue passioni. Poi c’è il mare in tempesta e devi restare a galla: economicamente, emotivamente. Le dinamiche di quello che viene chiamato capitalismo cognitivo si mescolano in realtà a un capitalismo emotivo, abilissimo nel ricatto e a sfruttare passioni, paure. E senso di smarrimento.