Francesco Cevasco, Mondo Nuovo 5-6/2013, 17 gennaio 2014
IL CONTASTORIE
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Tutti sanno come cominciano le favole: “C’era una volta...” E molti ricordano come vanno avanti, raccontando le gesta di Anatroccoli capaci di riscatto sociale, Fiammiferaie dal destino segnato, Soldatini vittime dell’amore e Pupazzi di neve effimeri. Sono parabole spesso edificanti, a volte violente e quasi mai ciniche, dove in un modo o nell’altro i buoni sentimenti alla fine trionfano e i cattivi non riescono ad avere la meglio. Rappresentano un mondo manicheo, dove il bene sta da una parte e il male dall’altra, separati in universi incomunicabili.
Ma tutti sanno anche che si tratta, appunto, di favole e che là fuori, nel mondo reale, le cose sono più complicate e le linee di confine indistinte fino alla confusione. È una regola alla quale non sfugge niente e nessuno, neppure Hans Christian Andersen, colui che forse meglio e più di chiunque altro ha saputo raccontare le storie. Un tipo davvero strano, molto strano...
Intanto il letto nuziale su cui nasce all’una di notte del 2 aprile 1805 è il catafalco di una nobile famiglia modificato in talamo dal padre ciabattino. I genitori lo fanno battezzare subito: sanno che i bambini, con quel freddo, hanno molte possibilità di non sopravvivere. Soprattutto se nascono in famiglie povere. E in posti sperduti lassù in cima al mondo, com’è la Danimarca di quegli anni: l’isola di Fiona, il villaggio di Odense, un panorama di terra piatta, mucche e cavalli, case di legno.
Il padre ha 22 anni e la madre, lavandaia, almeno una decina di più. Si sposano due mesi prima di metterlo al mondo. In paese, il padre è conosciuto per i suoi successi con le donne. La madre è già portata a esagerare con l’alcol. Insomma, non una coppia ideale. Il ciabattino vive poi nella speranza che gli venga riconosciuto il fatto di cui è convintissimo: essere figlio illegittimo di re Christian VIII e di una dama di corte, la contessa Elise Ahlefeldt Laurvig. Non a caso, Hans si chiama anche Christian come il (presunto) nonno.
Comunque papà Andersen sembra un buon padre, fantasioso e creativo: inventa per il figlio favole bizzarre, gli fa conoscere Le Mille e una Notte, fabbrica per lui marionette e bambole di pezza. Quello delle bambole sarà poi un problema perché Hans, per tutta la vita, le preferirà alle donne di carne.
Appena nato è già un tipo strano: molto più stretto e molto più lungo della media dei bambini. È brutto. Ma forse questo sarà il minore dei suoi problemi. Se non altro la bruttezza e la povertà infantili (e anche il desiderio ossessivo del riscatto sociale che lo accompagnerà per tutta la vita) gli ispireranno una delle favole più famose, Il Brutto Anatroccolo: “Non importa che sia nato in un recinto d’anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.”
E DAL RECINTO D’ANATRE Hans scappa molto presto, a 14 anni. Prima fa in tempo a vedere la morte del padre, nel 1816. Per tirare su un po’ di soldi e per allontanarsi dalla moglie resa insopportabile dall’alcol, si era arruolato in un improbabile esercito napoleonico e se n’era tornato a casa sfibrato e malato. Hans non ha mai avuto il complesso di Edipo, semmai era innamorato del padre: “Esaudiva tutti i miei desideri. Io ero padrone del suo cuore, lui viveva per me. La domenica mi fabbricava giochi, mi costruiva dei piccoli teatri, mi leggeva le commedie di Holberg e i Racconti Arabi. È soltanto in quei momenti che posso dire di averlo visto davvero felice, perché non era mai stato soddisfatto della sua vita di ciabattino” ha scritto in La vera storia della mia vita (1846). Per la madre, da adulto, ha avuto parole di tenerezza, ma soprattutto di non-complicità. Una sua favola, Non era buona a nulla, è esattamente la storia della lavandaia che si fa sanguinare le dita lavorando al ruscello e ha bisogno che il figlio le porti il gin per scaldarsi. E poi, finito il lavoro, birra calda. “La mia cara mamma! È proprio vero: non era buona a nulla!”, dice il ragazzo della favola. E ad attenuare non basta la vecchia zoppa che chiude così: “Non era buona a nulla. Era buona!”
Prima della scoperta di Copenaghen e del mondo, Hans ha ancora il tempo per qualche brutta esperienza. Dopo la morte del padre, la madre si è risposata con uno che cura la terra e gli animali. Il patrigno è analfabeta e a Hans non piace: imparagonabile al padre. Non che Hans fosse molto acculturato: da grande verrà criticato perché grammatica e sintassi gli scappavano via. Ma, siccome era furbo, il suo stile risultava “volutamente” specchio della lingua parlata. D’altra parte ai bambini quando racconti le favole che lingua usi? Quella della strada, non quella dotta!
Lavora come apprendista da un sarto e operaio in una manifattura di tabacco. È sproporzionatamente alto, eccessivamente magro, ha un naso esageratamente lungo e largo, si regge su piedi comicamente lunghi. Ha una incredibile voce. Tanto che i compagni di lavoro un giorno lo mettono spalle al muro e gli abbassano a forza i pantaloni: vogliono vedere se sia un maschio o una femmina travestita.
Via, via, via da qui. Hans non ne può più. E rischia. Va a Copenaghen. Ha le idee molto chiare: “Addio, io vado a fare l’attore, il cantante, il ballerino.” In verità fa molti mestieri: molti perché viene regolarmente licenziato, da falegname, cameriere, mozzo. Qualcuno lo chiama orangotango. Finché – forse è leggenda, forse no – una sera sputa fuori tutta la sua disperazione. Vagando nei vicoli del porto urla: “Sono rovinato! Rovinato!” Poteva scomparire dalla faccia della terra oppure... Sliding doors. Capitano lì due gran signori: un italiano, Giuseppe Siboni, direttore del conservatorio, e Soren Guldberg, noto scrittore danese. Gli parlano, ascoltano i suoi sogni: cantante, ballerino, attore, scrittore. Provano ad aiutarlo. Ma quel lungagnone sgraziato con gli occhi troppo piccoli e troppo vicini non ne azzecca una. Le sentenze sono crudeli: “Voce troppo debole per un cantante; figura sbilenca e magra destinata all’insuccesso sulla scena per un ballerino; testi teatrali sgangherati e sgrammaticati.”
Ma si apre un’altra porta (che ci sia lo zampino della casa reale?): nel 1822 Jonas Collin, uno dei direttori del Royal Theater, dopo aver letto la commedia scritta dal giovanotto Hans gli offre una donazione per consentirgli di frequentare la scuola di letteratura di Slagelse. Il direttore dell’istituto, Simon Meisling, è costretto a ospitarlo in casa sua. Meisling è un sadico che farà passare a Hans “gli anni peggiori della mia vita.” È un tipo piccolo, con uno stomaco prominente, i capelli e i vestiti mai esattamente puliti. Tratta bene soltanto i figli dei nobili che frequentano la scuola. Lascia Hans in pasto ai compagni che lo massacrano di scherzi osceni. Ma se non altro impara ad amare la letteratura romantica. E scrive commedie che nessuno vorrà mai mettere in scena.
Qui, a Slagelse, comincia un capitolo importante della vita di Hans. Si chiama amore. Anzi, amori. Un po’ strani, com’era lui. Per cominciare si innamora della figlia del capo: Louise Collin. È già un errore, ma l’errore più grave è quello di non capire che a lei di lui non importa niente. E quindi “in una notte d’estate, quelle con la luna piena, mentre i fiori luccicavano di mille colori, e anche risplendeva di quell’incanto, mi avvicinai a lei e le aprii il mio cuore...” La “sottile e bellissima ragazza” finge di non capire e lo lascia ad aggrovigliarsi nel suo irrisolto mondo poetico. E in questo mondo riesce anche a innamorarsi del fratello di Louise, Edvard, a cui scrive: “I miei sentimenti per te sono quelli di una donna, la femminilità della mia natura e la nostra amicizia devono restare un mistero.”
Ci ricasca quando si invaghisce di Riborg Voigt. Per lei, scrive una serie di poesie titolate Phantasier og skisser (Fantasie e Schizzi). Niente di speciale, ma mentre le scrive pensa a quella giovane donna che “aveva un adorabile volto, come quello di una bambina, ma i suoi occhi erano vivaci e pensierosi, marroni e vividi.” Un’altra delusione: l’amata Riborg sposa, nel 1831, il figlio di un farmacista. “Vorrei essere morto” dice Hans quando sa del matrimonio. Una delusione che lo perseguiterà fino alla fine: quando lo troveranno morto, Hans avrà al collo un sacchetto di pelle con dentro una lettera della donna che lui (sbagliando) pensava fosse una risposta positiva alle sue maldestre avances d’amore.
Ma per adesso non è ancora un grande scrittore riconosciuto in tutta Europa. Poi arrivano le sue 170 favole, che con i racconti favolistici arrivano a 262. Più poesie, commedie, opere musicali, racconti di viaggio. Dal 1835 Hans diventa il più apprezzato contastorie del continente. È l’anno di L’Improvvisatore, romanzo autobiografico in cui si narra di un povero ragazzo sfigato che riesce a integrarsi socialmente: la storia del Brutto Anatroccolo. Ma il problema dell’amore, degli amori mancati di Hans è irrisolvibile. I suoi innamoramenti, anche i più intensi, con femmine e maschi, sono sempre rimasti allo stato platonico. Non soltanto per la timidezza, ma soprattutto per il terrore del contatto fisico. A 62 anni, a Parigi, entra in un bordello: “Mi recai in un mercato della carne, una di loro era coperta di cipria, un’altra era una popolana, una terza sembrava una vera signora. Io le parlai, pagai dodici franchi e me ne andai senza avere peccato con le mie azioni, anche se oso dire di averlo fatto con i miei pensieri.”
Hans è vittima del suo animo. Nel romanzo L’Improvvisatore, si definisce così: “Io sono semplicemente un essere poetico, non un uomo come tutti voi.” Ci sono momenti in cui pensa al suicidio: le donne che gli piacciono non lo degnano, gli uomini che lo turbano lo snobbano. Ma il desiderio di riscatto sociale prevale: “Arrivai a Copenaghen con il mio fagottello, ero un povero ragazzo di campagna... Oggi ho bevuto la cioccolata con la Regina, seduto allo stesso tavolo, di fronte a lei e al Re.” Una gioia comparabile a quando Charles Dickens lo invita nella sua casa di Gad’s Hill, a Londra. Dickens lo apprezza. Lo ha conosciuto nel salotto letterario della contessa di Blessington. Nell’estate del 1857, rispondendo a un formale invito, Hans si presenta a casa Dickens. Dovrebbe restarci qualche giorno, si ferma molto più a lungo. Per capire quanto fosse insopportabile bastano un appunto della figlia di Dickens, Kate: “II danese è uno smilzo noioso”, e quel che Dickens scrive sullo specchio nella camera degli ospiti quando finalmente Hans se ne va: “Hans Andersen ha dormito in questa stanza per cinque settimane che alla mia famiglia sono sembrate un’eternità.”
SOPRAVVISSUTO AGLI istinti suicidi, Hans commette l’errore di innamorarsi ancora. Jenny Lind ha 22 anni, viene da Stoccolma, è una cantante lirica. La chiamano “l’usignolo svedese”; Mendelssohn dirà di lei: “In tutto il secolo non nascerà nessuna di egual talento”; in un quadro che la ritrae nel 1846 è un po’ patatona, ma appare bella. Invece lei si sente brutta: il suo ricordo di sé è di una bambina si ricorda come “piccola, brutta, timida, goffa e con un grosso naso.” (E sembra il ritratto del brutto anatroccolo). Si conoscono a Copenaghen. Lei si dichiara fervente religiosa. Ma i biografi la descrivono anche ferventemente passionale. Hans la vorrebbe sposare. Scrive all’amica Henriette Wulff che “questa perla attira tutti i miei pensieri, che nessun uomo, nessuna donna, ha mai esercitato un’influenza nobilitante per me e per la mia poesia come lei, nessuna donna mi ha provocato un’eccitazione così profonda, artistica e intellettuale ma anche sessuale.”
Hans non combinerà niente di concreto nemmeno con lei. D’altra parte in quegli stessi giorni stava corteggiando il ventiduenne barone Henrik Stampe.
Passa con lui due settimane nella sua tenuta. Questa volta – a leggere le lettere tra i due e il diario di Hans finalmente qualche cosa di concreto c’è stato.
Ma, altra delusione, il giovane barone ha sfruttato il brutto anatroccolo per conoscere e amare la giovane e carina Jonna Drewsen, che Hans conosce da quando era bambina. Ma ormai al triangolo Hans aveva preso gusto. Eccone un altro: ricompare Jenny Lind; questa volta a Weimar dove, nel frattempo, Hans è diventato una superstar dei salotti e della critica. Terzo lato del triangolo il Gran Duca Carl Alexander che gli dice cose tipo: tu sei grande come Goethe, hai diritto al suo trono letterario. Figuriamoci se Hans non s’innamora. Jenny interpreta in maniera commovente La Norma e La Sonnambula. Ma Hans si commuove di più per l’intimità con il Gran Duca. Scriverà nella sua autobiografia: “Lo amo come la persona più cara al mio cuore; mi ha detto che dovrò trasferirmi a Weimar per stare accanto a lui; mi ha detto che mi ama e ha premuto la sua guancia sulla mia; un giorno mi ha ricevuto coperto soltanto della sua vestaglia e mi ha stretto al suo petto. Poi ci siamo baciati e abbiamo pianto.”
E il terzo lato del triangolo, Jenny Lind? Il soprano-usignolo ha sempre considerato il suo spasimante un “buon fratello”. Che avesse ragione quel cinico di Søren Kierkegaard che, per spiegare il successo di Hans, diceva: “Andersen ha trasferito nei racconti la sua vita senza gioia”?