Govanni Borgognone, Mondo Nuovo 5-6/2013, 17 gennaio 2014
IL DOLLARO E L’INVENZIONE DELL’AMERICA
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Il dollaro, uno dei più potenti simboli del mondo moderno e odierno “lubrificante” della finanza globale, ha contribuito in misura rilevante all’invenzione degli Stati Uniti. La storia del primo è per molti versi la storia dei secondi, passati dall’essere la terra dei liberi agricoltori esaltati da Thomas Jefferson a superpotenza economica e finanziaria per eccellenza.
Non è stata una transizione lineare. Proprio sul dollaro, due dei Padri fondatori, Jefferson e Alexander Hamilton, hanno dato vita a uno scontro fra due visioni degli Stati Uniti. Originario della Virginia, Jefferson era un sostenitore convinto di una forma di repubblicanesimo democratico: a differenza di Hamilton e altri Padri fondatori come John Adams e James Madison, egli non temeva che dalla democrazia potesse discendere una “tirannide della maggioranza”; il pericolo assolutista, a suo avviso, non proveniva dal popolo, ma dai ricchi, dai privilegiati e dagli aristocratici. Il suo modello ideale di cittadino era il libero agricoltore. Definiva “il popolo di Dio” quelli che coltivavano terra di loro proprietà e non erano né troppo ricchi né troppo poveri, non conoscevano l’ozio degradante, non vivevano del pane altrui, erano gelosi della propria libertà. Erano, dunque, i cittadini virtuosi per eccellenza.
All’estremo opposto degli agricoltori americani Jefferson vedeva la società europea, caratterizzata da eccessive disuguaglianze nei rapporti di proprietà e da gerarchie sociali e politiche fondate sui privilegi. Da lì discendevano l’oppressione dei pochissimi sui moltissimi, le lotte violente e l’instabilità permanente nei rapporti tra gruppi sociali, la vita degenerata delle “depravate masse urbane europee”. L’America doveva evitare a ogni costo di cadere negli stessi difetti.
In tale prospettiva era convinto che la moneta di una libera repubblica dovesse essere costituita dall’oro e dall’argento. Solo la terra e i metalli preziosi, infatti, potevano essere considerati come “proprietà reali”. La cartamoneta, invece, rappresentava sostanzialmente l’introduzione di un sistema corrotto e misterioso di credito, basato su una “finzione legale”. La carta implicava una promessa che poteva essere rotta; beneficiava, così, gli imbroglioni; rendeva possibile manipolare il valore reale. E inoltre l’idea della cartamoneta gravitava fatalmente intorno all’idea di un potere centrale forte, ovvero intorno a quello da cui l’America, fondata sulla libertà, doveva tenersi alla larga.
Dalle concrete esigenze di trovare un comodo sistema di misurazione della terra, peraltro, Jefferson trasse l’ispirazione per l’introduzione del sistema decimale nelle monete. Si inventò così il cent di rame (poi sostituito dal bronzo), riprendendo il nome da Robert Morris, un mercante di Filadelfia che durante la guerra di indipendenza dalla Gran Bretagna si era occupato di organizzare le finanze americane. Morris aveva concepito il cent, però, come una moneta di cento volte il valore delle unità più piccole, mentre Jefferson ne invertì il senso, facendone il centesimo del dollaro. Ammiratore della Francia, introdusse anche il disme (oggi dime), il cui nome derivava infatti da dixième. Volle, infine, l’aquila come simbolo sulla moneta d’oro da dieci dollari.
Al contrario di Jefferson, Hamilton era fautore dell’espansione del raggio di azione del governo federale e di un destino di modernità economica, urbana e industriale degli Stati Uniti. Le motivazioni di partenza erano le stesse, vale a dire l’antitesi nei confronti dell’Europa, ma l’esito era opposto: solo un potere centrale forte e l’industrializzazione potevano garantire all’America di difendersi adeguatamente da eventuali tendenze aggressive del Vecchio continente.
Anche se Jefferson resta probabilmente il più amato tra i Padri fondatori, Hamilton ha contribuito in misura decisiva a plasmare il futuro del Paese. Primo segretario al Tesoro con la presidenza di George Washington, non esitava a concepire i rapporti sociali in senso verticale e a ritenere che si dovesse consentire l’accumulazione di grandi ricchezze e conferire al potere centrale tutte le risorse necessario per garantire l’ordine politico e civile.
Tutto era nuovo e inedito. Washington si trovava a presiedere delle cene in cui regnava il silenzio ed egli tamburellava nervosamente sul tavolo con la forchetta o il coltello. I delegati non sapevano neppure con quale appellativo si sarebbero dovuti rivolgere a lui (fu John Adams a proporre “His Excellency the President”), né Washington aveva, a sua volta, idee chiare su quali dovessero essere i loro effettivi compiti. Hamilton, invece, presentò un programma finanziario ben definito, che aveva come caposaldo la fondazione di una Banca nazionale, modellata sulla base del prototipo della Banca d’Inghilterra. Essa doveva servire a tutta una serie di scopi, tra cui fare da deposito dei fondi governativi, facilitare l’esazione delle tasse ed emettere banconote, riducendo la loro emissione da parte delle banche statali. Si trattava di una vera e propria rivoluzione sociale al cui centro vi era il dollaro. Esso, nelle intenzioni di Hamilton, doveva diventare un elemento unificante della giovane nazione, accanto al potere altrettanto unificante e indivisibile del governo centrale.
Il progetto hamiltoniano di fondazione della Banca degli Stati Uniti giunse al Congresso, ma non poté che incontrare forti contestazioni. Furono vibranti quelle di James Madison: a suo avviso la costituzione non conferiva un potere simile al Congresso. Washington si confrontò con Hamilton e con Jefferson, che era il segretario di Stato. Quest’ultimo diede ragione a Madison: la Costituzione doveva essere rispettata rigorosamente. Egli, peraltro, vedeva in Hamilton tutto il peggio, fino a considerarlo un monarchico e un anglofilo. Il loro contrasto divenne la più netta contrapposizione ideologica nel panorama politico americano: campagna contro città, diritti degli Stati contro federalismo, denaro “duro” contro cartamoneta. Quella parziale battaglia la vinse Hamilton: sia pure tra mille perplessità, Washington firmò la legge. La Banca degli Stati Uniti entrò in vigore nel dicembre 1791 con un mandato di venti anni.
Il prevalere delle tesi di Hamilton inasprì le divisioni. Il rafforzamento del potere centrale consentì allo schieramento politico jeffersoniano, il partito dei “democratici-repubblicani”, di segnalare il pericolo di una tirannia che avrebbe distrutto, secondo loro, la libertà del popolo americano. Queste idee ebbero presa soprattutto negli Stati del sud, gelosi delle proprie tradizioni, incluso lo sfruttamento degli schiavi. Sul versante opposto il partito hamiltoniano, i cosiddetti “federalisti”, ebbe il proprio epicentro nel nordest ed espresse gli interessi delle élites finanziarie e dei ceti medi urbani. La nazione era, dunque, profondamente divisa.
Una volta terminato il mandato ventennale della prima banca centrale, guidata da Nicholas Biddle, detto “zar Nicholas” per il suo potere, la seconda venne aperta a Filadelfia, il porto più trafficato e di fatto la capitale economica del Paese. Venne chiusa nel 1836 dal presidente Andrew Jackson: intendendo parlare a nome dell’uomo comune, affermava di avere “paura” delle banche e del loro immenso potere.
Nel frattempo gli Stati Uniti erano sempre più proiettati verso Ovest: nuove terre e risorse rappresentavano enormi possibilità di profitto.
L’espansione portò a una guerra con il Messico e si accompagnò all’aggressione e allo sterminio degli Indiani nativi. Non tutti erano d’accordo con queste politiche, ma a contrastarne le obiezioni si sviluppò nel discorso pubblico l’idea nazionalistico-religiosa di un “destino manifesto”: sulla base di tale narrazione, gli Stati Uniti erano “predestinati” da Dio a portare la civiltà in terre che ne erano prive. John O’Sullivan, sulla Democratic Review, scriveva che incarnavano l’ultimo stadio della civiltà: avevano realizzato la democrazia, erano separati dagli influssi negativi del sistema europeo ed erano unici, proprio in quanto soggetti a una particolare protezione divina, per posizione, vigore e vitalità. Quale “nazione del progresso umano”, gli Stati Uniti non potevano che essere, dunque, “inarrestabili” nella loro avanzata.
In tale percorso, il dollaro nella prima metà dell’Ottocento ebbe una funzione fondamentale, e non solo come “mezzo” di espansione o come “fine” dell’attività di uomini di affari e speculatori, ma anche per la diffusione pubblica di “immagini”. Non di rado, infatti, le banconote riproducevano pittoreschi paesaggi dell’Ovest e scene di vita serena in quelle terre lontane e misteriose per gli americani dell’Est. Le raffigurazioni sulle banconote contribuirono, così, alla trasformazione della percezione dell’Ovest, rassicurando molti potenziali investitori privati che non si trattava affatto di lande selvagge inospitali e non civilizzabili.
Ben presto, al contrario, l’Ovest divenne il mito di un’America ancora pura, terra dalle infinite opportunità: grandi spazi, natura possente, tumultuosa crescita economica, individualismo, umanità semplice. Anche in questo caso, il dollaro aveva contribuito non poco a riplasmare l’identità politica della nazione statunitense.
Proprio il destino delle regioni a Ovest approfondì la divisione fra gli Stati del Nord da quelli del Sud: i primi aspiravano a terre e lavoro liberi, i secondi volevano la formazione di nuovi Stati che ammettessero la schiavitù.
Fu questa una delle premesse più rilevanti della Guerra civile (1861-1865), all’inizio della quale fece la sua comparsa, peraltro, la banconota da un dollaro, il cosiddetto greenback (dal colore verde del dorso). Il conflitto rischiava di mettere il governo dell’Unione in seria difficoltà finanziaria; il segretario al Tesoro Salmon P. Chase propose l’introduzione di buoni del tesoro pagabili su richiesta. Essi furono adoperati per rimborsare i creditori del governo e cominciarono a circolare come vere e proprie banconote. Con il peggioramento delle condizioni economiche, il governo cessò di convertire questi buoni del tesoro in moneta sonante. Nel 1862, quale misura “di guerra”, nacquero i greenbacks, che sarebbero presto diventati la banconota nazionale.
Nei due anni successivi, con la legislazione dei National Banking Acts, fu creato il sistema bancario nazionale, posto sotto il controllo federale del ministero del Tesoro. L’obiettivo di fondo era di eliminare la produzione di banconote diverse da parte dei singoli Stati (ciò che, peraltro, rendeva più semplice le contraffazioni), introducendo la singola valuta nazionale. Il numero di banche nazionali sparse in tutto il paese, pari a 66 al tempo della legge, sarebbe passato a 7.473 nel 1913.
All’inizio della Guerra civile (conclusasi con la resa del generale sudista Robert E. Lee presso il villaggio di Appomattox nell’aprile del 1865), gli Stati Uniti potevano ancora essere considerati, per certi versi, un’eccezione rispetto alla forma europea dello Stato moderno grazie a un assetto istituzionale che distribuiva la sovranità a vari livelli. Alla fine di quello che resta il più sanguinoso conflitto della loro storia, erano giunti a “europeizzarsi”, attraverso la costruzione dello Stato centrale a scapito delle periferie, la “nazionalizzazione” della società, l’omogeneizzazione delle culture e la costruzione di potenti “miti nazionali” che avrebbero reso le “sezioni del Paese” (in precedenza entità quasi separate con progetti sociali ed economici autonomi) sempre più obsolete, fino a farle scomparire. Il Paese aveva posto, dunque, le premesse per diventare una grande potenza e proiettarsi nel panorama internazionale. E in questo processo il dollaro aveva certamente rivestito un ruolo di primo piano.