Claudio Sardo, l’Unità 17/1/2014, 17 gennaio 2014
VENT’ANNI FA MORIVA LA DC MA NON HA LASCIATO EREDI
Era il 18 gennaio 1994. Mino Martinazzoli annunciò la ri-fondazione del Partito popolare nella sede storica dell’Istituto Sturzo, a Palazzo Baldassini. Poco distante, nell’hotel Minerva di Roma, la mattina di quella stessa giornata, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio avevano dato vita al Ccd. La Democrazia cristiana – il partito che aveva governato per quasi mezzo secolo, guidando la ricostruzione, l’industrializzazione, la crescita democratica del Paese e poi anche la degenerazione del potere – chiuse così i battenti. Era appena iniziata la campagna elettorale che avrebbe portato Berlusconi al clamoroso successo. I referendum di Segni avevano imposto la svolta maggioritaria. E il ciclone di Tangentopoli aveva azzerato un’intera classe dirigente. Tuttavia entrambe le filiazioni della Dc, benché in competizione tra loro, andavano incontro alla sconfitta.
Sì, perché anche Casini, che pure accettò da subito la sfida bipolare e uscì dalle urne del ’94 tra i vincitori, si ritrovò in posizione subalterna rispetto a quel Berlusconi, che alla Dc aveva strappato tanti elettori, ma della Dc non aveva neppure un cromosoma. La convivenza col Cavaliere è durata dieci anni: poi la rottura ha ulteriormente marcato lo spostamento a destra e la deriva populista di quella che fu la rappresentanza dei «moderati» italiani.
La sconfitta più significativa fu comunque quella di Martinazzoli. Lui, generosamente, interpretò la ri-costituzione del Ppi come «la terza fase» del cattolicesimo democratico. Quella «terza fase» che Aldo Moro aveva intravisto, auspicato, ma che venne travolta dalla mano assassina dei brigatisti. Il moroteo Martinazzoli sperò che in quei primi anni Novanta dal male della corruzione, dal blocco politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), dalla crisi di sistema in cui il Paese era sprofondato dopo l’adesione al trattato di Maastricht, potesse scattare una redenzione. I valori «buoni» della Dc, in fondo, avevano vinto e l’economia sociale di mercato era anche per la sinistra la sola difesa disponibile a fronte del liberismo arrembante: perché da quelle radici non poteva nascere una nuova pianta? Peraltro, il ritorno al Ppi era anche un riconoscimento della novità del Concilio: l’unità politica dei credenti non aveva più un fondamento teologico e la proposta «popolare» si sarebbe misurata con il pluralismo delle opzioni politiche nella stessa Chiesa.
Il maggioritario nostrano, però, prima ridusse il Ppi a una terza forza minoritaria, poi lo costrinse alla scelta: o con i progressisti o con Berlusconi. E il paradosso maggiore è che i cattolici che scelsero più convintamente la sinistra, lo fecero accettando l’oblio della raffinata cultura costituzionale della Dc, di quella capacità di usare le istituzioni per includere, di concepire la mediazione come valore, di distinguere i poteri per evitarne l’eccessiva verticalizzazione. La Dc non sarebbe stata se stessa senza la filiera di giuristi che va da Costantino Mortati a Leopoldo Elia. Non avrebbe avuto i tratti originali che abbiamo conosciuto con De Gasperi, con Fanfani, con Moro e con lo stesso De Mita, il quale compì l’ultimo serio tentativo di rigenerazione democristiana, pur dentro l’impraticabile blindatura pentapartita.
LA CULTURA COSTITUZIONALE
La spinta forte dei cattolici democratici verso l’Ulivo fu quella dei referendum e della «religione» del maggioritario. In fondo in Romano Prodi c’era uno spirito di rottura non dissimile da quello di Mario Segni: la percezione di una necessaria, radicale innovazione nelle forme della competizione politica. Un bipolarismo quasi angosassone, che non solo punisse (giustamente) l’occupazione dei partiti nella società ma anche (discutibilmente) la responsabilità dei partiti nella formazione dei governi e nella vita delle istituzioni.
La Dc nasce, prospera, dà il meglio di sé nella società divisa dalla Guerra fredda, nell’Italia che si emancipa dalla povertà, nel sistema proporzionale, nella Chiesa che protegge l’unità politica dei credenti. Le gabbie dei blocchi sociali le assegnano la rappresentanza dell’elettorato conservatore e anti-comunista, ma la Dc tenta sempre di superare se stessa e si concepisce sin dalle origini come «un centro che guarda a sinistra». Il no di De Gasperi al Papa che gli chiedeva di aderire all’«operazione Sturzo» è un vero e proprio atto fondativo della Dc, della sua laicità e della sua fedeltà alla Costituzione. In fondo De Gasperi si rifiutò di fare ciò che Berlusconi fece quarant’anni dopo: un’alleanza senza confini a destra.
Ovviamente la Dc ebbe diversi sbandamenti a destra: negli anni 50 fino alle pagine nere del governo Tambroni, poi ancora negli primi anni 70. La sua vita interna è stata piena di battaglie. Spesso decisive per il Paese. Era il partito della nazione. Nel bene e nel male. E con Moro, che rispettava il radicamento e la cultura nazionale del Pci, arrivò fino a tentare un salto democratico non compatibile con i rapporti di forza internazionali del tempo.
Oggi non sentiamo più alcuna nostalgia della Guerra fredda, né dell’unità politica dei cattolici. La Dc non ha più ragion d’essere. Eppure quella cultura personalista sedimentata nei corpi intermedi e nella Costituzione, quel senso del limite della politica e dei poteri, quell’idea delle istituzioni come mediazione (e non negazione) dei conflitti, sarebbe oggi utile. Anche a sinistra. Se il Pd vuol essere il partito della ricostruzione nazionale, non ha interesse ad azzerare la storia. Il nuovismo è effimero: la parabola di Berlusconi l’ha dimostrato. Non è un caso che, seppure la Dc non abbia veri eredi, i leader più giovani ed emergenti abbiano una discendenza proprio da quella storia.