Paolo Griseri, la Repubblica 17/1/2014, 17 gennaio 2014
L’AVVOCATO FUSTIGATORE DEI SALOTTI NAUFRAGA TRA MUTANDE, CRAVATTE E DVD
Doveva essere la rivoluzione della provincia, la rivolta delle campagne pulite contro la città corrotta. È finita in “underwear”. Non è la prima volta che la parabola di un politico cade sulla biancheria intima. Ma fino ad ora le mutande erano simbolo evocativo di notti bollenti e fughe precipitose, vuoi nella versione più raffinata che ci offre in questi giorni l’Eliseo, vuoi in quella più pecoreccia dell’utilizzatore finale di via del Plebiscito. La parabola dell’avvocato di Novara Roberto Cota, libero professionista sventatamente prestato alla politica dalla supponenza del centrosinistra piemontese, costituisce invece una sorta di novità: per la prima volta al mondo un politico scivola sulle mutande intese proprio come capo di abbigliamento, senza allusioni, strizzatine d’occhio, rimandi a lettoni e docce saffiche. E in questo scandalo di provincia, in questo furto di basso profilo ai danni del contribuente sta la cifra del cotismo, se proprio si vuole regalare al governatore in mutande l’onore di un neologismo.
L’ASSALTO AL SALOTTO
All’inizio fu la zarina. Così il centrodestra piemontese (e in confidenza anche un pezzo del centrosinistra) definiva Mercedes Bresso, la professoressa del Politecnico di Torino diventata Presidente del Piemonte. Accusata di non aver mai abbandonato quell’atteggiamento educativo di chi mette le mutande al mondo (ironia dei nomi) che le era rimasto dai tempi della cattedra e che non la rendeva simpatica quando doveva spiegare le linee della sua politica. La Lega fece il resto: «Dobbiamo far contare il Piemonte, basta con le scelte imposte dai salotti di Torino», gridava Cota nei comizi della provincia arringando le folle nelle cantine sociali contro Torino ladrona. L’avvocato di Novara, fedelissimo di Bossi al punto da reggergli il posacenere (in una foto simbolo indimenticata), vinse le elezioni del 2010 a sua insaputa. Per 9.000 voti, una bazzecola. Soprattutto vinse all’insaputa del centrosinistra che ancora una settimana prima del voto diceva con la Presidente: «Vinco io, è sicuro» e tracciava sul taccuino dei cronisti le percentuali di quel trionfo immaginario.
ARRIVANO I BARBARI
La notte della vittoria i leghisti festeggiarono nel centro di Torino come i Longobardi alla conquista di una città dell’Impero. «Governeremo nell’interesse dei piemontesi e non delle banche e dei poteri forti», prometteva Cota nelle prime conferenze stampa. Ma pochi mesi dopo arrivarono le prime grane. Gli scandali si portarono via il vice del governatore, Roberto Rosso di Forza Italia, mancato sindaco di Torino, noto per vantare pubblicamente una lontana parentela con don Bosco, santo fondatore dei salesiani. Non aveva molti santi in paradiso nemmeno Caterina Ferrero, titolare dell’assessorato chiave della sanità, caduta per una complessa vicenda giudiziaria che non spiacque all’entourage del governatore. «La sanità va governata con criteri di efficenza, basta con i politici, è ora che arrivino i manager», aveva promesso Cota nei giorni di quello scandalo. L’arrivo di Paolo Monferino, manager Fiat, sembrava la chiusura del cerchio. Cota si accreditava al Lingotto e affidava a un tecnico la gestione della patata bollente sanitaria.
FINE DELLE ILLUSIONI
Da metà 2012 gli scandali giudiziari hanno finito per andare a braccetto con i fallimenti politici. Contro lo scetticismo di una parte del centrosinistra, Mercedes Bresso ha coltivato ricorsi legali contro la lista «Pensionati per Cota », guidata da tal Michele Giovine, uno dei molti soldati di ventura che si offrono ai partiti alla vigilia del voto con liste di supporto più o meno farlocche. Farlocca, perché nata con firme false, è certamente quella che ha appoggiato il governatore leghista ottenendo 27 mila voti, tre volte la differenza tra Cota e Bresso. La scoperta dei falsi del quarantunenne Giovine, già consigliere regionale di centrodestra per il gruppo Consumatori, poteva essere l’occasione buona per staccare la spina di una giunta politicamente al capolinea. Almeno da quando, nel 2013, l’unico esperimento politico del governatore leghista, la scelta di un manager per mettere ordine nella sanità, è miseramente naufragata. Paolo Monferino ha alzato bandiera bianca per manifesta impossibilità di applicare le sue ricette, a dimostrazione del fatto che è facile criticare i politici quando si sta seduti in un consiglio di amministrazione mentre è molto più difficile mettersi nei loro panni cercando di risolvere i problemi.
FINALE DI PARTITA
L’ultima tegola sul governatore in verde è del 2013 con l’indagine sui rimborsi dei consiglieri regionali. Indagine certamente bipartisan che ha messo alla berlina un consigliere della lista Bresso accusato di aver acquistato con il denaro del contribuente un tosaerba difficile da definire «materiale per attività politica». Ma è un fatto che gran parte delle spese bislacche sono del centrodestra e dei leghisti che volevano risanare i salotti corrotti di Torino. Borse di Borbonese, regali di nozze agli amici, addirittura i giocattoli donati in beneficenza ai bambini malati. Tutto finiva sul conto di Pantalone. Cota, il moralizzatore, deve giustificare spese indebite per 25.410,66 euro. Nel suo conto c’è di tutto, dalle cravatte, ai dvd, al libro dello statista genovese dell’Ottocento Gerolamo Boccardo. Ma soprattutto ci sono scontrini per tre cene in tre ristoranti diversi nella stessa sera, ciò che dà l’idea non bella di una pesca a strascico delle ricevute. E poi ci sono loro, le mutande verdi, acquistate in un negozio di Boston. Mai la città dei Kennedy, delle avventure in barca di John e degli incontri con Marylin, avrebbe immaginato di poter provocare indirettamente, con un solo paio di mutande, il tramonto di un politico dall’altra parte dell’Atlantico: Robert Cota, Piedmont’s governor, il rivoluzionario travolto da uno scontrino.