Marco Palombi, Il Fatto Quotidiano 17/1/2014, 17 gennaio 2014
LA BUFALA DEI DEBITI DI STATO: SPICCIOLI E ALLE GRANDI AZIENDE
I debiti commerciali della Pubblica amministrazione sono una telenovela appena cominciata. Le stime sullo stock totale variano dai 90 miliardi ipotizzati dalla Banca d’Italia ai 120 sparati dalla Cgia di Mestre: tra i sei e gli otto punti di Pil, all’ingrosso. Insomma, un sacco di soldi che le imprese devono ricevere e lo Stato dare: li aspettano per pagare stipendi, fare investimenti, produrre ricchezza, evitare fallimenti. Il governo ha stanziato a questo fine 27,2 miliardi per il 2013 e 20 per l’anno prossimo. Bene che vada, come si vede, la metà della cifra. Non solo. Anche i pagamenti del 2013 non sono andati proprio come ci si augurava. La politica, ha detto il vicepresidente di Confindustria Aurelio Regina, “sta dimenticando completamente il tema del ritardo nei pagamenti”: bisognava fare una ricognizione del pregresso entro settembre, dicono gli industriali, e non s’è fatta, mentre ora “il flusso dei rimborsi è molto scarso, le risorse scarse e oggi i vecchi debiti della P.A. saranno pagati dagli stessi cittadini con l’aumento delle aliquote locali”. Per regioni, province e comuni, infatti, si tratta in molti casi di anticipi di tesoreria da rimborsare e il modo più ovvio è aumentare le tasse locali. Tornando ai tempi di pagamento, Antonio Tajani, da Bruxelles, ha fatto sapere che a questi ritmi la Commissione potrebbe decidere di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia. Ecco un breve riassunto delle principali questioni.
Numeri del 2013. Il primo problema è che l’anno scorso non tutto lo stanziamento è arrivato a destinazione: dai dati ufficiali, aggiornati al 29 novembre, risulta che il Tesoro ha messo a disposizione degli enti pagatori (ministeri, regioni, comuni, eccetera) oltre 24 miliardi su 27, ma quelli effettivamente pagati ai creditori sono solo 16,2 miliardi, neanche il 60 per cento delle risorse totali. “Stiamo elaborando gli ultimi dati dell’anno – fanno però sapere dal ministero – e siamo abbastanza sicuri di poter arrivare a 20 miliardi pagati”. Si tratterebbe di un’accelerazione abbastanza vistosa, ma non impossibile visto il modo in cui si è proceduto ai pagamenti. I soldi per il 2013, infatti, sono stati stanziati in due tranche: 20 miliardi la prima, ad aprile, che risulta pagata al 71 per cento (14,2 miliardi); 7,2 miliardi la seconda, a settembre, che invece a dicembre era stata trasferita alle imprese solo al 28 per cento (circa due miliardi).
Cattivi pagatori. Se si scende nel dettaglio, si scopre che le performance di chi deve fisicamente passare questi soldi alle imprese sono assai diverse tra loro. Tre regioni, per dire, a fine novembre risultavano aver lasciato al Tesoro più di un miliardo di debiti della prima tranche: si tratta di Sardegna, Sicilia e Calabria, che dopo sei mesi non avevano ancora presentato i piani di pagamento o la relativa copertura. Sui 160 milioni di debiti sanitari nella casella della Regione Sardegna c’è scritto “nessun atto pervenuto”; sui 600 della Sicilia “atti regionali in corso di elaborazione”. Il problema, spiegano gli esperti, è solo in parte l’incapacità burocratica: “Spesso è difficile certificare i crediti, cioè renderli pagabili, perché sono stati fatti fuori bilancio e dunque, per definizione, non certificabili” . Pure i ministeri vanno a rilento: a metà novembre avevano consegnato ai creditori solo il 65 per cento dei soldi in cassa (e molti non arrivavano nemmeno alla metà, compreso quello dello Sviluppo).
Grandi imprese favorite. Anche la platea dei beneficiari – e dunque l’effetto sulla crescita di questa immissione di liquidità – presenta qualche aspetto oscuro: i dati elaborati da Confartigianato, sempre a novembre, mostrano infatti una certa preferenza degli enti pagatori per le grandi imprese. Ecco i numeri: le aziende con oltre 500 addetti sono state pagate all’85,6 per cento, quelle sotto i cinquanta solo al 51,6 per cento. Peccato che – secondo il sondaggio congiunturale di Bankitalia di ottobre – le grandi imprese avrebbero usato questi soldi, ma solo in parte, per investire, mentre a quelle piccole servivano a pagare gli stipendi e a sostituire il credito che non gli viene concesso dalle banche (cioè a rimanere in vita).
Il buco dell’Imu. Altro punto controverso è l’extragettito Iva messo a bilancio per questa operazione: a rischio, in particolare, sono i 925 milioni di euro della seconda tranche, indicati come una delle coperture per abolire la prima rata dell’Imu 2013. Difficile, però, che i due miliardi pagati abbiano portato il miliardo di imposte atteso, anche perché non tutti quei soldi finiscono in pagamenti veri e propri con tanto di Iva. Insomma il rischio – come scritto nel decreto di fine agosto – è che aumentino temporaneamente le aliquote: “Le stime sulla prima tranche – mettono le mani avanti dal Tesoro – sono però assai prudenziali: solo 600 milioni per 20 miliardi. Alla fine i soldi potrebbero venire da lì”.
E il resto dei soldi? Nel 2014, come detto, verranno saldati alle imprese altri 20 miliardi di debiti commerciali. Resta il problema di quei 45-70 miliardi (a seconda delle stime) dei quali non è nemmeno previsto il pagamento. Una vecchia proposta del presidente di Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, prevede una garanzia statale sui crediti che ne faciliti lo sconto in banca da parte delle imprese: gli istituti, a loro volta, potranno girare quei crediti a Cdp, che li ristrutturerebbe integrandoli ai mutui già accesi dagli enti locali presso Cdp. I governi Monti e Letta – nonostante il Parlamento si sia espresso positivamente sull’idea – hanno finora detto no. Due sono i problemi secondo il Tesoro: questa “operazione trasparenza” farebbe salire il nostro rapporto debito Pil di una decina di punti percentuali in poche settimane e, ancor peggio andrebbe se Eurostat – dopo questa operazione – considerasse la Cassa un mero braccio finanziario del ministero dell’Economia conteggiando investimenti e debito di Cdp dentro il bilancio pubblico.