Mattia Feltri, La Stampa 17/1/2014, 17 gennaio 2014
SEMPRE PERICOLOSI GLI ACCORDI QUANDO IL CAVALIERE PARLA DI “VERI SOCIALDEMOCRATICI”
A Matteo Renzi, che sarà senz’altro più astuto dei predecessori, e forse anche del rivale, vorremmo comunque fare dono, in via precauzionale, di un promemoria. Perché poi uno da Silvio Berlusconi ci deve passare per forza, che sia pregiudicato o no, affidabile o meno, essendo lui l’imperituro capo del maggior partito di centrodestra. Uno che fra l’altro cominciò a parlare bene di Renzi molto prima che lo facessero quelli del Pd, dove la propensione al ritardo è ormai a rischio cronicità. «E’ un socialdemocratico e un liberale», disse Berlusconi già nel 2012 e lo ripete ogni un paio di settimane. La speranza è che Renzi non si senta il migliore dei peggiori - dall’angolazione berlusconiana. E qui comincia il promemoria. «Il migliore dei peggiori» è il titolo che Berlusconi concesse a Massimo D’Alema, il suo interlocutore preferito. Con D’Alema avrebbe affrontato pacificazioni e modernizzazioni a occhi chiusi. Leggete qui che diceva nel 1997, aprile: «D’Alema parla come un vero socialdemocratico». A suo gusto, era un Renzi di quindici anni fa. Avevano appena cominciato l’avventura della Bicamerale per le riforme e, ecco, a proposito di promemoria, sicuramente il sindaco di Firenze ricorda come andò a finire. Con Berlusconi che una mattina si svegliò e disse addio, le riforme non si fanno più, non siete credibili eccetera.
Nel frattempo però aveva lunsingato D’Alema da gran tombeur qual è. Un paio d’anni prima, nel 1995, il rubacuori era andato al congresso del Pds a Roma, ed erano tutti affascinati, a cominciare proprio da D’Alema che applaudì, e poi Gavino Angius («ha fatto un discorso serio e onesto») e Luciano Violante («ha fatto un discorso da leader»). D’Alema, nei giudizi berlusconiani, era «uno con cui si può dialogare, nell’ambito della sinistra». Uno di cui fidarsi perché «se dice sì è sì, se dice no è no». Qualità che è più complicato individuare in Berlusconi, a cominciare dal giorno in cui mandò in rovina la Bicamerale e il medesimo D’Alema. Il quale però non è l’unico sedotto e abbandonato. Nel Pd (e partiti progenitori) il filarino lo hanno avuto un po’ tutti. Sull’attuale governo, che doveva essere di larghe intese e revisione costituzionale, è inutile soffermarsi. Nel 2007, proprio a Firenze, Berlusconi prese parte a un altro congresso, quello di rottamazione dei Ds, nel quale gli fu assegnata la vigilanza più efficace e prestigiosa: quella dei portuali di Livorno. Lo scortarono dentro il PalaMandela perché ascoltasse l’intervento di Piero Fassino. E gli piacque, come prevedibile. Applaudì, come ancora più prevedibile, il passaggio sulle riforme da fare «tutti assieme». Sottolineò «la volontà coraggiosa» di Fassino e apprezzò l’idea nascente e «socialdemocratica» del Pd: «Se è questo, al 95 per cento sarei pronto a iscrivermi pure io». Difatti l’anno dopo arrivarono le elezioni e il muovo avversario, Walter Veltroni.
Com’era Veltroni? «Un socialdemocratico», disse Silvio. Mica i comunisti di cui purtroppo era circondato. «Con Veltroni ho lavorato bene quando io ero presidente del Consiglio e lui sindaco della capitale». Già a fine 2007 i due si vedono a Montecitorio, nella stanza di Dario Franceschini. L’intesa è planetaria: basta bipolarismo muscolare, sì a riforme istituzionali condivise chiunque vinca, e c’è l’intesa anche per la legge elettorale (questa ultima frase va riletta due o tre volte da ogni buon renziano). Veltroni esce, va in conferenza stampa e dice: «Mai come oggi c’è stata la possibilità di varare in 12 mesi la riforma elettorale e quella istituzionale, per ridare all’Italia la capacità di decidere». Vabbè, senza farla tanto lunga (ma sarebbe divertente), non si combinò nulla perché, spiegò qualche mese più tardi Berlusconi, «il Pd non è ancora riuscito a diventare un partito socialdemocratico». E fu un vero peccato perché «con Veltroni il dialogo sembrava possibile». Una grande speranza che con Pierluigi Bersani non fiorì per pura coincidenza: in fondo Bersani è uno «leale». E naturalmente «un socialdemocratico».