Sergio Romano, Corriere della Sera 17/1/2014, 17 gennaio 2014
UN DIPLOMATICO ITALIANO DAL FASCISMO ALLA DEMOCRAZIA
Sto leggendo con interesse «Il mondo sovietico» dell’ambasciatore Luca Pietromarchi. Mi chiedo se lei, durante i suoi primi anni al ministero degli Esteri, abbia incontrato e/o conosciuto Pietromarchi e se possa tratteggiarne un profilo.
Vittore Brunazzo
vibrunaz@tin.it
Caro Brunazzo,
Quando misi piede per la prima volta a Palazzo Chigi, Luca Pietromarchi era da qualche anno ambasciatore ad Ankara. Quando ritornò dalla Turchia e partì per Mosca, dove avrebbe passato gli ultimi due anni della sua carriera, fino al 1961, ero a Londra. Posso dire di averlo soltanto incrociato nei corridoi del ministero. Ma lo ricordo abbastanza bene. Era piuttosto alto, asciutto, zigomi pronunciati, occhi scuri, baffi, sopracciglia folte e nere, ma capelli bianchissimi. Credo di ricordarlo anche perché molti lo salutavano con una sorta di reverenza.
Qualcuno mi disse sorridendo che negli anni della sua carriera il conte romano Luca Pietromarchi era stato un uomo per tutte le stagioni. A giudicare dal suo curriculum, l’osservazione non era fuori luogo. Entrato in carriera nel 1923, dopo una breve esperienza nell’amministrazione coloniale, aveva passato parecchi anni a Ginevra nel segretariato della Società delle nazioni. Quando rientrò a Roma ebbe quasi subito incarichi «caldi». Fu capo dell’ufficio Spagna dal 1936 al 1939, vale a dire dall’inizio alla fine della guerra civile, e anche, per un certo periodo, capo di gabinetto di Galeazzo Ciano, allora ministro degli Esteri. Dopo l’intervento dell’Italia nel conflitto, il 1o giugno 1940, divenne dapprima capo dell’Ufficio guerra economica, poi del Gabinetto armistizio e pace, un organismo che avrebbe dovuto consentire alla diplomazia italiana di arrivare ben preparata al tavolo della vittoria.
Non so per quanto tempo Luca Pietromarchi abbia davvero creduto all’utilità del suo lavoro. Ma ogni illusione doveva essersi ormai dissipata quando gli fu messa tra le mani anche un’altra patata calda di Palazzo Chigi: la direzione dell’Ufficio Croazia. Dopo essere stata jugoslava, la regione era diventata un regno indipendente, destinato a un membro di casa Savoia che non volle mai sedere sul trono, e brutalmente governata da un duce slavo, Ante Pavelic, che il regime di Mussolini aveva allevato nelle sue cucine. A Roma la Croazia era considerata un satellite, ma Pietromarchi dovette accorgersi rapidamente che il sogno di un protettorato italiano al di là dell’Adriatico non si sarebbe mai concretato per almeno due ragioni. Pavelic preferiva la protezione dei tedeschi a quella degli italiani e il suo Paese, comunque, era teatro di una sanguinosa guerra civile fra croati e serbi in cui le truppe italiane, in molti casi, tendevano a simpatizzare per i secondi piuttosto che per i primi.
Responsabile di tante missioni «scorrette», Pietromarchi finì nel radar della Commissione centrale di epurazione che decise di radiarlo dalla diplomazia nel 1945. Ma due anni dopo, nel 1947, il Consiglio di Stato accolse il suo ricorso e lo reintegrò nel ranghi. Gli giovarono le testimonianze molto favorevoli di un diplomatico britannico, la collaborazione con il generale Castellano per la preparazione dell’armistizio con le forze alleate, il processo che la Repubblica sociale di Mussolini aveva cercato di fare contro la sua persona e, probabilmente, l’amicizia di molti monsignori. Un uomo dalle molte vite? Un Talleyrand della diplomazia italiana? A me sembra che Pietromarchi avesse altre caratteristiche. Credeva nella continuità dello Stato. Come dimostrò nei suoi libri sulla Turchia e sull’Unione Sovietica era un osservatore intelligente della politica internazionale. E durante tutta la sua vita professionale ebbe come punto di riferimento la sola autorità a cui l’aristocrazia romana fosse veramente devota: il Papa. Quando ricordo Luca Pietromarchi non penso a Talleyrand, ma a Giulio Andreotti.