Paolo Salom, Sette 17/1/2014, 17 gennaio 2014
UNA RIVISTA PER SOLI UOMINI. QUELLI DELLA YAKUZA
«Di questi tempi anche i morti hanno storie da raccontare», dice l’Uomo Yakuza a Keanu Reeves nel film Johnny Mnemonic (1995). E agli uomini d’onore dell’Estremo Oriente pare proprio che le “storie” piacciano. E parecchio. Tanto che da qualche settimana i circa 28mila membri della Yamaguchi-Gumi, il clan più potente (e numeroso) del Giappone, hanno a disposizione una rivista autoprodotta e a loro dedicata. La Yamaguchi-Gumi Shimpo – come dire: il Gazzettino di Cosa Nostra – non si trova in edicola, ovviamente, ed è considerata “riservata”, come è lecito attendersi da un’associazione malavitosa. Eppure, la curiosità intorno al foglio è stata tale che piano piano ne sono emersi contenuti e fattura. A cominciare dal logo del gruppo, a forma di diamante, che campeggia orgoglioso sulla prima pagina, così da poter essere subito identificato dai fedeli seguaci, tutti privi di una falange del dito mignolo (molti amputati anche delle altre: una per ogni sgarro) ma capaci di sfogliare la rivista tra un’attività e l’altra.
Sessantaduemila affiliati. In Giappone, Paese che non prevede il reato di associazione mafiosa, le sedi della Yakuza sono alla luce del sole. Chi è familiare con i film di Takeshi Kitano ricorda bene le scorribande (Brother, Outrage) partite da locali più simili a sale d’aspetto di medici di base che a covi di mafiosi.
Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalle apparenze: la Yakuza è una cosa molto, molto seria. E nessun giapponese “normale” si sognerebbe di varcare la soglia di una delle rappresentanze di quartiere di questi “fuorilegge”. Che fino a non molti anni fa, nel periodo “romantico”, agivano un po’ da anti-poliziotti, con un ruolo riconosciuto dalla società: a loro il controllo del gioco d’azzardo, della prostituzione, dell’usura. Il tutto però entro certi limiti, da non oltrepassare assolutamente, pena l’intervento delle autorità. Il solo fatto che sia noto il numero dei membri di ogni singolo clan (alla Yamaguchi-Gumi appartiene circa il 40% del totale degli Yakuza-man giapponesi, che sono oltre 62mila secondo i dati della polizia nazionale) la dice lunga sul rapporto tra criminalità e gente per bene.
Rapporto cui i malavitosi tengono parecchio. Ed è proprio per ripristinare l’antico clima di “fiducia” e, per quanto inteso in maniera differente dalle due parti, di “rispetto dei ruoli” che la Yamaguchi ha dato vita alla sua rivista, venuta alla luce al termine di una “guerra dei sette anni” tra clan nel Kyushu, con violenze ripetute che hanno talvolta raggiunto incolpevoli civili. «La rivista», ha detto al Guardian Jake Adelstein, esperto di malavita del Sol Levante e autore del saggio Tokyo Vice, «rappresenta il tentativo di dimostrare ai giapponesi che la Yamaguchi-Gumi è un’organizzazione antica che ha a cuore le tradizioni nazionali, che i suoi seguaci non sono un manipolo di sgherri violenti come quelli che hanno messo a ferro e fuoco il Kyushu nel recente passato».
Ecco dunque un gazzettino che pubblica “haiku” (classici componimenti poetici di tre versi), articoli sulle tecniche di pesca e “suppliche” ai lettori (leggi: malavitosi) di intraprendere “buone azioni” e lo slogan in caratteri rossi (caro ai kamikaze): «Se la gente ti chiede cos’è lo spirito di Yamato, sono i fiori di ciliegio che profumano nel sole...».
Naturalmente non mancano gli editoriali, come quello del boss Kenichi Shinoda – «Fuori dalle avversità, verso nuovi progressi» – che riconosce come le recenti leggi anti-mafia promulgate in Giappone, proprio in seguito alle ripetute violenze, abbiano reso «difficile alla Yakuza di racimolare quattrini a sufficienza»; e un articolo sui «95 uomini più vicini al capo supremo» (cioè lui, Shinoda, e ciascuno con la sua foto!).
Cosa non si fa per sopravvivere. Così, da una parte pubblicando una rivista capace di risollevare a un tempo morale dei membri e immagine esterna del gruppo, e in più ampliando il proprio campo d’azione a quelle attività legittime come gli investimenti in Borsa, l’imprenditoria e insomma gli “affari legali”, la Yakuza prova a riciclare se stessa e a sopravvivere ai tempi. Duri, per tutti. «Ma è solo un’illusione», spiega Junji Tsuchiya, sociologo dell’Università Waseda di Tokyo. «Il lupo perde il pelo ma non il vizio». Un esempio? I lavori intorno alla centrale di Fukushima hanno attirato l’interesse dei clan. Questo perché non è facile trovare lavoratori, specializzati o meno, per procedere con le opere di risanamento. E le ditte appaltatrici, che hanno a disposizione fondi immensi garantiti dal governo, non si fanno troppi scrupoli quando un “caporale” arriva con il suo pulmino carico di “disoccupati”. È di poche settimane fa la notizia dell’arresto di un uomo, appartenente alla Yakuza della prefettura di Yamagata (40 membri), condannato poi a otto mesi di prigione per aver estorto a sette lavoratori parte della loro paga giornaliera che andava poi a ingrassare gli altri membri del clan. «Ma il caso di Yamagata», ha dichiarato un ufficiale di polizia, «non è che la punta di un iceberg: per quanto riguarda il risanamento di Fukushima, la Yakuza è penetrata a ogni livello. Il guaio è che le leggi non sono adeguate, sono state promulgate senza ipotizzare il coinvolgimento della criminalità organizzata. Così le pene sono più che lievi».
Una contraddizione paradossale se pensiamo che la mafia giapponese si è «riorientata» soltanto dopo una serie di provvedimenti che limitano moltissimo la sua capacità di movimento sotterraneo. «La loro sensazione», ha dichiarato un altro ufficiale di polizia, anche lui rimasto anonimo, «è che le disposizioni anti-racket, come il divieto di aprire conti correnti o sottoscrivere rogiti, abbiano reso arduo riciclare miliardi di dollari come nel passato». Niente di meglio, perciò, in giorni così cupi, che trascorrere un po’ di tempo leggendo la rivista con i “consigli del capo”. In attesa di colpire di nuovo.