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 2014  gennaio 17 Venerdì calendario

INFERMIERI ITALIANI SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI


Sono pochi. Secondo il fabbisogno reale del sistema sanitario, ne mancano da 50 a 70mila (ne abbiamo 6,6 ogni mille abitanti, contro gli 8,4 della media europea e i 17,4 della Svizzera). Sono in numero esiguo anche rispetto ai medici: 1,6 contro i 4,5 del Giappone (primo Paese Ocse). Sono tra i meno pagati dell’area Ocse (il primo stipendio base è di 1.200 euro al mese), con un potere d’acquisto inferiore anche a quello dei colleghi spagnoli e cileni. Non fanno carriera (se non limitatamente) e lavorano in strutture che spesso non consentono loro di operare al meglio per il benessere delle persone che assistono. Gli oltre 415.000 infermieri italiani sono tra i capri espiatori della crisi. Fanno turni su turni su turni, saltano i riposi o le ferie se un collega si ammala, rientrano dai riposi che spettano loro di diritto dopo le notti, se il bimbo della collega ha la febbre e lei non può venire a fare il turno del mattino. Gli infermieri, oltre al loro lavoro spesso fanno quello degli ausiliari, degli operatori sociosanitari (perché non tutte le strutture hanno, appunto, gli OSS), dei fisioterapisti, dei nutrizionisti, talvolta dei medici: ma senza adeguato riconoscimento né compenso. Ma restano aggrappati al senso del dovere, quando c’è. In alcuni reparti sono da soli di notte, con 15-20 pazienti, di cui alcuni operati il giorno stesso. Gestiscono situazioni complesse, anche se il responsabile del reparto spesso non c’è: di notte è a casa e viene solo se chiamato per un’urgenza. Sovente al loro fianco c’è solo il medico di guardia presente in ospedale, che sta in Pronto soccorso e cura tutti i pazienti afferenti a un Dipartimento (ad esempio tutti i reparti chirurgici). Si tratta quindi di un lavoro socialmente importante, in un momento segnato dalla crisi, dalla spending review e dalla contrazione dei posti letto nei reparti: in Italia il numero di letti d’ospedale, che è di 231.707 (3,82 ogni mille abitanti), in base al decreto legge sui tagli programmati, dovrà presto arrivare a 224.318 (3,7 posti letto per mille abitanti) con un taglio di ben 7.389 posti. Del calo risentono anche i Pronto soccorso, il presidio sanitario più accessibile al cittadino. Nei grandi centri urbani il flusso di persone da gestire è impetuoso. Qui lavorano in prima linea, oltre ai medici, gli infermieri. La situazione della categoria, quindi, è critica.

Mancato riconoscimento. Deborah Zordan, coordinatrice infermieristica dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, nonostante la giovane età coordina 43 infermieri e ha alle spalle anche esperienze all’estero. «I cambiamenti che servono sono tanti: a partire dal fatto che le nostre posizioni apicali, cioè i dirigenti infermieristici, devono possedere una propria autonomia e un proprio ruolo di impulso e di indirizzo, non essere mero strumento sotto la guida dei medici. Questo per far crescere la nostra categoria e responsabilizzarla». Il secondo aspetto è che «anche nella remunerazione degli infermieri va introdotto un criterio meritocratico: i corsi di formazione (coi relativi crediti) sono obbligatori, ma nessuno controlla chi li frequenta: va invece sanzionato chi non li segue e premiato chi si prepara e cresce».
E poi c’è il problema della turnazione: «Il coordinatore deve avere a disposizione un organico sufficiente a coprire i turni senza far saltare i riposi. Gli organici invece sono sempre risicati, all’osso. E lo stress professionale cresce», segnala Zordan.
Anche il rapporto coi medici andrebbe mutato: «Spesso l’infermiere non viene tenuto nella giusta considerazione, non si comprende che è un collaboratore di importanza essenziale. Se qui all’Istituto dei tumori un medico per stanchezza sbaglia a scrivere il dosaggio dei farmaci per la chemioterapia dobbiamo essere noi ad accorgercene, non siamo dei meri esecutori. Quando ho iniziato il tirocinio in Svizzera, il primario si è venuto a presentare di persona e il lavoro era improntato al rispetto e alla collaborazione».
Il trattamento economico lascia a desiderare. «Pur dirigendo 43 infermieri, a fatica guadagno 1.700 euro al mese. In Svizzera, il primo stipendio è di 4.000 franchi e da lì si sale. Per non parlare dell’efficienza e dell’organizzazione». Deborah Zordan ha una proposta interessante: «Andrebbe istituita, accanto a ogni medico di base, l’infermiera di territorio. Muovendosi tra gli assistiti consentirebbe un grande risparmio al sistema sanitario».
Un infermiere con 21 anni di professione svolta in strutture lombarde, ma che desidera mantenere l’anonimato, denuncia: «L’80-90% dell’utenza si rivolge al Pronto soccorso. È il primo filtro, che viene intasato anche da richieste non propriamente emergenziali, perché fuori la rete di assistenza sul territorio non funziona: l’accesso al curante è difficile, senza contare la carenza di medici di base, Asl, guardia medica». Cosa avviene allora? Tanti se ne approfittano e usano il Pronto soccorso per avere esami e mini check-up subito e a costo zero.
Solo quando si è ammalati si può capire come e quanto lavorano gli infermieri in Italia. Oggi li chiamano gli “angeli della corsia”, ma nel Quindicesimo secolo la professione era svolta da prostitute, galeotti e orfani, che venivano alfabetizzati e addestrati per occuparsi degli ammalati. Un passato che ancora pesa: nonostante i cambiamenti degli ultimi vent’anni, manca ancora un adeguato riconoscimento sociale a una professione che invece è centrale nel sistema sanitario. Una infermiera con 23 anni di esperienza, attiva anche nel NurSind, il sindacato unitario rappresentativo della categoria (anche lei ha timore di esporsi con nome e cognome), fa notare che «entrambi, medici e infermieri, sono indispensabili, ma i secondi non fanno carriera. Eppure la somministrazione dei medicinali ci rende responsabili come il medico. Lo sanno bene giuristi e assicurazioni».

Reparti difficili. Basta girare qualche reparto ospedaliero per avere conferme. Gli infermieri dello staff del Dipartimento di Salute mentale del Niguarda di Milano spiegano: «In caso di denuncia, la magistratura sequestra la cartella clinica. Il diario infermieristico è dettagliato, in merito al paziente; e registra con precisione tutto quello che gli accade nel reparto. È questo il documento che il giudice legge per primo. Poi passa al diario clinico del medico».
Il lavoro degli infermieri non è più considerato usurante, ma di fatto continua a esserlo. Al Dipartimento di Salute mentale gli infermieri dormono anche tutta la notte su un materasso adagiato per terra accanto alla porta della camera del paziente problematico; i tre pasti (alle 8, alle 12 e alle 18) vanno controllati perché sono momenti di grande tensione: non tutti hanno un rapporto “normale” con il cibo e con la socialità.
Gli infermieri trattano poi con gli operai giunti a visionare l’impianto di riscaldamento che non funziona e che ha messo in difficoltà i degenti; rifanno i letti; esortano all’igiene i pazienti che non se ne curano; aggiornano di continuo la cartella; si relazionano con i parenti di ricoverati altamente problematici.
«Facciamo cose che non ci competono, tutto quello di cui non si occupano gli altri», ammette una giovane infermiera che lavora da quattro anni nel reparto Medicina di un ospedale di Milano. Un altro infermiere fa notare che «gli utenti, ossia i pazienti, sono esigenti anche in reparto: c’è molta solitudine». La disgregazione sociale e l’assenza della famiglia rendono poi i pazienti più aggressivi.
Un’indagine dell’aprile 2013 del NurSind registra il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario: un infermiere su cinque dichiara di avere subìto aggressioni, sia verbali sia fisiche. Un effetto, probabilmente, della frustrazione sociale provocata dalla crisi economica e in parte della limitata conoscenza del valore del ruolo degli infermieri da parte degli stessi cittadini.

La “fuga” in Svizzera. Eppure gli infermieri sono il perno del sistema sanitario nazionale, rappresentando il 58,2% del personale complessivo. Tanti, eppure insufficienti. Un’indagine della sezione milanese dell’Ipasvi, la Federazione nazionale collegi infermieri, ha denunciato la carenza, in Lombardia, di circa 8 mila infermieri, con un fabbisogno, solo a Milano, di 4 mila unità.
Come si fronteggia la mancanza di personale infermieristico? Moltiplicando i turni notturni e i festivi. Ma la “paga” resta bassa. E l’iniquo trattamento economico “pesa” in modo diverso all’interno della stessa categoria: «Un infermiere al Pronto soccorso ha un carico di lavoro diverso da chi lavora nell’oculistica. All’estero, in Svizzera per esempio, la retribuzione economica cambia sulla base delle competenze e della mole di lavoro», rivela una giovane infermiera. Nel Canton Ticino un professionista su tre è italiano. Oltre alla Svizzera, attraggono Inghilterra e Arabia Saudita; a lavorare in Italia come infermieri vengono invece prevalentemente rumeni e sudamericani. Ma sempre meno.

Aspiranti in calo. A causa dei tagli alla spesa sanitaria, l’assorbimento di nuovi infermieri è infatti minimo. E le domande per i corsi, a numero chiuso (attivati in 223 sedi, facenti capo a 42 facoltà di Medicina) sono in calo. Anche se a Torino, alle prove di selezione del settembre 2013, si sono presentati in 427 per 230 posti. Il trend della richiesta è però calante. Turnazioni irregolari, sovraccarico di lavoro (aumentano gli ordini di servizio, che obbligano i dipendenti a lavorare durante i loro riposi), e ambienti di lavoro poco salubri o addirittura pericolosi sono alcune delle ragioni per cui molti infermieri se ne vanno all’estero.
Restano solo i più forti: combattenti in prima linea, in lotta contro i disagi interni della categoria e della società fuori.
Carlotta Zavattiero