Fabrizio Gabrielli, ultimouomo.com 17/1/2014, 17 gennaio 2014
LA SINDROME DI GERUSALEMME
Gerusalemme è una città per certi versi tossica. Dei milioni e milioni di turisti che calpestano le stesse strade che hanno calpestato Gesù Cristo, Re David e Maometto, ogni anno, in media, almeno quaranta vengono ricoverati nei locali istituti di igiene mentale con patologie ossessive di stampo religioso, crisi depressive e altri disturbi psichici simili. C’è chi a questa psicosi, che si direbbe quasi infettiva, ha dato un nome: “Sindrome di Gerusalemme”. Sembra che la gente, quando va a Gerusalemme, quando parla di Gerusalemme, quando si trova ad avere a che fare in un qualche modo con Gerusalemme, alla fine, davvero, impazzisce; il fatto curioso è che la città, in realtà, c’entra solo marginalmente, pur avendo un ruolo preponderante. La gente è pazza già da prima, dice il dottor Moshe Kalian a Shaul Adar in un bel pezzo intitolato For Richer, for Poorer (apparso sul numero 3 di The Blizzard); e Gerusalemme si presta a farsi palcoscenico.
Miri Regev è nata a soli settanta chilometri da Gerusalemme. Ex brigadiere dell’esercito, parlamentare del Knesset israeliano in quota Likud, il partito conservatore, Miri Regev voglia di scherzare ne ha poca. Lo scorso 30 dicembre non ha perso occasione per unirsi al fiume in piena delle proteste e dire la sua (al quotidiano Haaretz) sulla quenelle di Anelka. La quenelle è quel gesto di discutibile gusto inventato dal comico-maître-à-penser-antisionista francese Dieudonné, una sorta di saluto nazista rovesciato, la stilizzazione di un tronco mozzato da trascinare “in culo al sionismo”. «Quel giocatore dovrebbe essere escluso per sempre dalle competizioni sportive. Lo sport non può essere utilizzato per incitare l’odio razziale», ha affermato la Regev. Poche ore dopo, nel quartiere Malha di Gerusalemme, mentre il locale Beitar affrontava il Maccabi Petah Tikva, c’è chi giura d’aver visto Miri Regev sostenere i gialloneri seduta nelle gradinate est del Teddy Stadium. Il Beitar è l’unica squadra d’Israele che in novant’anni di vita—novanta—non ha mai annoverato tra le sue fila uno-che-fosse-uno calciatore arabo. Ma la presenza della Regev ha destato scalpore e sollevato perplessità soprattutto perché quel settore, la gradinata Est, è il cuore pulsante de La Familia, la frangia di tifosi celebre, oltre che per il fanatico sostegno alla causa sionista, per essere una delle più facinorose, xenofobe, razziste e violente tifoserie al mondo. Tristemente famosa proprio perché, da sempre, non si fa remore ad asservire lo sport al sordido fine d’incitare all’odio contro Arabi e Musulmani.
«Cosa rende noi [del Beitar, NdR] così diversi dagli altri? Non siamo la squadra che ha vinto più campionati, né la squadra con la migliore reputazione. Quel che ci rende diversi—prima di tutto—è il fatto d’essere la squadra di Gerusalemme. E c’è solo una città, al mondo, poi ci sono tutte le altre città. La seconda cosa che ci rende così diversi, poi, è quella d’avere una tifoseria fanatica, emozionale.» Parola di Itzikh Kornfein, storico portiere e capitano della compagine gerosolimitana, oggi CEO del club.
Il Beitar Gerusalemme Football Club è nato nel 1936 come diretta emanazione sportiva del movimento sionista Beitar, fondato nel 1927 a Riga, in Lettonia, dallo scrittore, traduttore e poeta Ze’ev Jabotinsky e modellato sugli ideali di coraggio, dignità, onore, difesa dello stile di vita ebraico. Il Beitar (il movimento, non la squadra) si batteva per promuovere la creazione di uno Stato di Israele libero dalle ingerenze straniere. Vedeva nel Sionismo militarizzato l’unica risposta possibile ai sentimenti antisemitici che s’aggiravano per tutta l’Europa.
Non è poi troppo strano che esista una squadra così strettamente connessa a un movimento politico. Non in Israele, almeno, dove anche i vari Maccabi e Hapoel sono la gamba armata (di scarpini) delle ali, rispettivamente, più moderata e laburista. Il Beitar è invece figlio del movimento di Jabotinsky, e i suoi tifosi hanno scelto di ispirarsi al partito nazionalista-religioso di stampo neosionista Kach, oggi dichiarato illegale, il cui credo era quello di difendere Israele, la Terra Promessa agli Ebrei.
Fino agli anni Duemila il Beitar (la squadra, non il movimento) non ha avuto particolari motivi per far parlare di sé: un misero ammontare di quattro titoli nazionali; qualche coppa; il lancio di un promettente Eli Ohana (poi vincitore di una Coppa delle Coppe che ricorderanno bene i tifosi dell’Atalanta, con il Malines di Preud’Homme); la vittoria della Shalom Cup nel settembre del 2000, a Roma, quando nella mini-finale da 45 minuti sconfisse i giallorossi di Capello (che nella stagione successiva avrebbero poi vinto il loro terzo scudetto).
A partire dal 2005, però, nei pressi del Teddy Stadium sembra essersi scatenata una pandemia di Sindromi Gerosolimitane. È a partire da quel momento che il nome del Beitar, nelle cronache (sportive e soprattutto non), ha cominciato a far rima con razzismo, xenofobia, violenza.
Di quell’XI facevano parte il portiere Kornfein, attuale CEO del club, e Jan Telesnikov, centrocampista oggi allenatore in seconda.
«Voi giornalisti: non dite che siamo l’unica squadra senza arabi (in realtà usa un aggettivo, “arabish”, che intuitivamente ha un suono leggermente dispregiativo): dite invece che siamo l’unica squadra composta da soli ebrei.»
Guy Israeli è il capo riconosciuto de La Familia, il gruppo di ultrà che a partire dal 2005 si è sostituito ai Tradition Keepers nel ruolo di ultimo baluardo del sionismo applicato al calcio (o meglio: al tifo calcistico). Guy ha il collo taurino, un non-so-che che lo rende somigliante a Val Kilmer, un fare spavaldo. Non propriamente il tipo che vorresti portasse tua figlia a cena fuori. Per fare l’ultrà a tempo pieno ha lasciato la moglie, e non ha figli. La sua famiglia è La Familia: «La mia casa, tutto quello che ho».
Gli studiosi che per primi hanno provato a delineare l’eziologia della Sindrome di Gerusalemme ne hanno identificato tre sottotipi. Al sottotipo numero II figurano “individui appartenenti a un gruppo”. Sono persone con disordini mentali minori, piccoli disturbi della personalità, pervasi da un’ossessione, da un’idea fissa. Quella di Israeli e dei suoi compagni di curva, evidentemente, è mantenere l’undici del Beitar, per dirlo con una parola che fatico a rappresentarmi scevra di connotazioni negative, puro.
«Io scelgo chi mi rappresenta, non tu. È la mia squadra», dice Israeli contorcendosi in una smorfia che vorrebbe (e ci riesce benissimo) essere incisiva. Il giornalista, giustamente, gli fa notare che lui non è il proprietario della squadra. Guy tentenna un po’. «Io sono la squadra, la squadra mi appartiene.»
Ma una squadra di calcio può appartenere alla tifoseria in maniera così stretta da arrivare a esserne ostaggio? In Italia ce lo ripetiamo come un mantra, ci diciamo certo che no: ma nessuno, nella dirigenza de La Menorah, come viene chiamato il club, converrà mai sul fatto che loro, di fatto, ostaggio lo sono eccome—peraltro di una sparuta minoranza, cinquecento, forse mille tifosi. Eppure lo sono. I giocatori, l’allenatore. Addirittura tutto il resto dei sostenitori.
La Familia ha scelto che non vuole arabi a rappresentare i colori del Beitar. Arabo, per loro, è un insulto, e come tale viene utilizzato nei cori, inculcati nella mente dei ragazzini con la kippah giallonera sul capo.
Non è semplice xenofobia. Non è rancore antigoym. È più specificatamente sionismo condotto all’estremo.
«La pace, qui, non esisterà mai. Noi non piacciamo agli arabi, e gli arabi non piacciono a noi.»
La Familia, agli arabi, preferisce uomini (prima che calciatori) come Tvartko Kale. Il terzo sottotipo della Sindrome di Gerusalemme riguarda persone con un quadro clinico immacolato che cadono vittime di episodi psicotici una volta messo piede in Israele.
Kale, dopo dieci anni di onorata carriera in Croazia, dove ha difeso la porta anche dell’Hajduk Spalato, a trentatré anni ha firmato un contratto con il Beitar. Era il 2007. Presto è diventato un idolo della tifoseria: per le parate che hanno consentito a La Menorah di aggiudicarsi il secondo scudetto consecutivo dopo dieci anni all’asciutto, certo. Ma non solo. Nel marzo del 2008, Kale ha rilasciato un’intervista all’emittente televisiva Israeli TV per il canale sportivo Sport5.
In quei giorni, la città di Ashkelon era stata vittima di un attacco missilistico da parte di Hamas. Kale racconta al giornalista che lo sta intervistando: «Io ho fatto la guerra in Croazia. [...] Ho molti amici che mi inviano sms chiedendomi come sia possibile sostenere una situazione del genere, perché non fate come abbiamo fatto noi?» «E come avete fatto voi?», chiede l’intervistatore. «Vieni, uccidi, distruggi.» Cos’è quello? Un ghigno? Il giornalista è basito. «Ma non possiamo farlo.» «Certo che potete», risponde Kale con un mezzo sorriso. «Potete, ma il governo non lo permette. Lottate per la pace da sessant’anni, ma non funziona così. È il momento che qualcuno faccia così, plaf (sbatte il pugno contro il palmo dell’altra mano), per dimostrare una cosa soltanto: “sono piccolo, ma sono grande”.
La Familia, gente così, la deifica. E se il destino non gli mette sul cammino un agnello d’oro come quello, loro se ne fabbricano uno posticcio. Su Eli Ohana, il primo giocatore israeliano a espatriare e raccogliere successi in Europa—prima dei Ronny Rosenthal, prima degli Yossi Benayoun—circola una storiella fantasiosa nell’underground dei tifosi del Beitar. Una storiella che lo vorrebbe correre contro la panchina dell’Australia, dopo un gol in una gara di qualificazione per i Mondiali del ’90, panchina sulla quale sedeva il coach Arok che—sempre secondo la storiella—si sarebbe lasciato andare ad affermazioni antisemitiche nel pre-gara. La storiella vede Ohana correre contro Arok per baciargli in faccia la Stella di David. È di storie come queste, che hanno bisogno Israeli e gli altri de La Familia. Di Ohana il vendicatore. Di Kale il risolvi-guai.
Ma il più pernicioso e incurabile caso di Sindrome di Gerusalemme finora diagnosticato, forse, è quello che ha folgorato Arcadi Gaydamak. Un caso del Primo Tipo. Il più pericoloso.
Secondo gli psichiatri che ne hanno codificato sintomi e manifestazioni, la Sindrome di Gerusalemme di Primo Tipo si manifesta in soggetti che già da prima hanno dato segno d’averci qualche rotella fuori posto: la venuta in Terra Santa, per loro, coincide con lo stadio finale di un processo che li mena nei pressi della Collina del Tempio per compiere “qualcosa di grande”, per dare attuazione a un’idea grandiosa. Per realizzare il Grande Progetto a cui si sentono predestinati.
Arcadi Gaydamak è uno di quegli oligarchi russi spuntati come funghi nella Russia post-perestrojka, in quel tipo di milieu in cui anche un tassista può sognare la scalata al Cremlino. Somiglia vagamente a Vincent Cassel. È ebreo ma è nato a Mosca, e per un bel pezzo della sua vita ha vissuto in Francia; ufficialmente era proprietario di una società per traduzioni. Poi è capitato anche che abbia collaborato con i Servizi Segreti francesi per la risoluzione di qualche inghippo diplomatico nel Caucaso, o intessuto commerci leciti e illeciti con l’Angola (nel 2009 è stato condannato a sei anni di carcere per traffico di materiale bellico).
In Israele è tornato verso la metà degli anni zero, dopo averci trascorso qualche anno in gioventù. Con zelo filantropico ha sovvenzionato scuole, salvato ospedali dalla bancarotta, si è prodigato per la costruzione di campi d’accoglienza per i profughi della zona di Shderot colpiti dai razzi kassam di Hamas. Poi, fedele agli insegnamenti dei basics del populismo, s’è buttato sul calcio. La prima mossa è stata quantomeno controversa: nell’agosto del 2005 ha versato quattrocentomila dollari nelle casse del Bnei Sakhnin, il più importante club arabo d’Israele, per sovvenzionare—al pari di investitori sauditi—la costruzione di quello che sarebbe poi stato battezzato Doha Stadium. (Il Bnei, per intenderci, è la squadra che quando ha vinto la Coppa d’Israele i membri de La Familia hanno acquistato una pagina intera dello Yediot Aharonot, uno dei più influenti quotidiani nazionali, per pubblicarci un necrologio in memoria del defunto calcio israeliano.) Esattamente un mese dopo ha acquistato il Beitar.
Appena ha preso in mano le redini del club, il primo gesto che s’è sentito di fare è stato quello di tesserare un nigeriano, Ibrahim Nadallah. Niente di male: un presidente sceglie i giocatori che preferisce, in base all’apporto tecnico-tattico che possono convogliare nella squadra. Nadallah era musulmano. La Familia non l’ha presa bene. Mezza stagione dopo, Nadallah ha chiesto d’essere trasferito. «Non raccomanderei mai a un musulmano di giocare col Beitar», ha dichiarato poi in un’intervista. «Gli estremisti non cambieranno mai.» La Familia non ha perso occasione per farne subito un quote da striscione.
Forse Arcadi è solo alla ricerca dei titoli dei giornali. Forse è questo che gli piace. Farsi pubblicità. Dare a vedere che sta premeditando “qualcosa di grande”. Altrimenti perché scegliere, per investire nel pallone, versando nelle casse di un club 120 milioni di dollari, proprio la squadra di Gerusalemme, per di più con una tifoseria difficile da gestire in dote? Per diventare “l’uomo più popolare d’Israele”? Forse c’è qualcosa che si spinge oltre l’egocentrismo.
Nel 2007, dopo aver vinto il primo scudetto dopo dieci anni col Beitar, Gaydamak ha fondato un movimento che presto è diventato un partito politico. Si chiamava Società e Giustizia e la sua ideologia si fondava sul rispetto della dignità umana, delle minoranze, della diversità. Era essenzialmente vicino al Likud, il partito conservatore: però voleva rivolgersi anche ad Arabi, Drusi, Beduini, comunità ultraortodosse. Un po’ a tutti. In maniera ondivaga e sibillina, come ogni mossa del cerchiobottista Gaydamak.
A intervalli regolari, da quando ha preso posto sullo scranno più alto del Beitar, Gaydamak ha rilasciato dichiarazioni di questo tipo, l’una simile all’altra: «non ci faremo troppi problemi a tesserare giocatori arabi o musulmani se questi possono rivelarsi utili alla squadra». E regolarmente l’opposizione de La Familia ha finito, in un modo o nell’altro, per far arenare le trattative. Come quella per il trasferimento di Abbas Suan, bandiera della Nazionale, israeliano ma arabo.
Il fatto è che non basta procurarsi un ambasciatore con un minimo di caratura internazionale, oggi Osvaldo Ardiles, domani il francese Luis Fernández, per ammantare d’autorevolezza promesse e propositi. Se Gaydamak li ha portati sulla panchina del Beitar è stato per attirare su di sé le luci della ribalta. Strategie di marketing. Come dichiarare la volontà del club di aprire all’integrazione, combattere il razzismo, i rigurgiti sionazisti. Marketing.
Gaydamak, non volendo, ha dato vita alla più adamantina personificazione del complotto giudaico: afflati di sionismo estremo frammisti a capitalismo oligarchico e sbandierati inviti alla tolleranza. Eccola, la demoplutocrazia. Ecco il suo Beitar.
Nel 2008 Arcadi si è candidato alla carica di sindaco di Gerusalemme. Ha tappezzato la città di poster coi colori della squadra, ma ha raccolto poco più di settemila voti, un misero 3,6% delle preferenze. «Forse potrei smettere di investire. Potrei chiamare la squadra Beitar Gaydamak. Potrei venderla, oppure ridimensionare il budget e farla scendere di due categorie.» Gaydamak ha scaricato tutta la sua delusione su La Familia. «I tifosi? Non mi interessano minimamente. Se potessi non li farei più entrare allo stadio.» «È il mio club, soltanto mio. Non appartiene a nessun altro all’infuori che a me.» «Questa nazione ha tradito me e la mia famiglia, e quel che è peggio i miei valori ebraici.» Una volta ha davvero chiuso l’accesso alle frange più violente della tifoseria. Solitario, nelle gradinate riservate al gruppo di Guy Israeli, ha sventolato per tutto il tempo della partita una bandiera gialla e nera.
Più volte, dopo la débâcle elettorale, Gaydamak ha cercato di vendere la squadra. Si sono fatte avanti cordate, personaggi minori—tutti affetti da Sindrome di Gerusalemme, ad analizzarli ber bene, seppure in forme più o meno marcate. Prendi Adler, ad esempio. Dan Adler è un ebreo americano, tycoon con un’infruttuosa campagna per il Congresso alle spalle. Non ha fatto in tempo a presentare la sua candidatura alla presidenza del Beitar che già si è visto piombare contro tutto il dissenso dei tifosi. Adler è un membro del direttivo dell’Israel Policy Forum, organizzazione che promuove l’integrazione tra arabi e israeliani come soluzione al conflitto palestinese. Facile immaginare la reazione de La Familia: «ci stanno vendendo al diavolo».
Oppure vogliamo parlare di Guma Aguiar, che nel 2010 convocò una conferenza stampa per comunicare la sua volontà di investire nell’acquisto del Beitar, di «portare il Barcellona a Gerusalemme», salvo venir poi ricoverato, il giorno successivo alla conferenza stampa, su consiglio dei fratelli, in un istituto di igiene mentale di Miami? E allora a Gaydamak, per forza o per amore, è toccato tenerselo, il Beitar.
Quando nel gennaio del 2013 ha organizzato un’amichevole contro i ceceni del Terek Grozny (la squadra dell’esuberante primo ministro reggente della repubblica caucasica Ramzan Kadyrov), anche tra i più fanatici sostenitori de La Menorah è cominciata a serpeggiare la sensazione che forse Gaydamak si stesse spingendo un po’ troppo oltre. Che è poi l’errore in cui incappano tutti i presunti predestinati. Nelle intenzioni del management (di fatto, di Gaydamak) il match col Terek aveva lo scopo di «rinsaldare l’amicizia tra i popoli di Cecenia e Israele», che anche alle orecchie degli estremisti di ultradestra è suonata come un nonsense. In molti hanno pensato che la trasferta fosse principalmente volta alla chiusura dell’acquisto di Sadayev e Kadiyev, due calciatori del Terek, tesseramento che a sua volta è sembrato un pretesto di Gaydamak per crearsi simpatie tra i businessmen ceceni. In altri s’è fatta largo l’ipotesi che quel gioco portato all’estremo, quella provocazione, quel continuo stuzzicare ora Gog ora Magog fosse la sua personalissima forma di vendetta—venata di sadismo—nei confronti della città che l’aveva respinto come primo cittadino. Perché i due ceceni, poi: erano musulmani.
Nella partita in cui han fatto il loro esordio, La Familia ha esposto uno striscione che ribadiva «Il Beitar sarà puro per sempre». Settant’anni di storia cancellati da una parola—quattro lettere—un suono cupo, gutturale. Qualche giorno dopo due giovani militanti hanno infranto una finestra del clubhouse, cosparso di benzene, acceso un fiammifero prima di darsi alla fuga. Maglie firmate, memorabilia del club, trofei: tutto è andato in fiamme. «Hanno cominciato col bruciare gli edifici, i prossimi a cui appiccheranno il fuoco chi saranno? Noi?» ha dichiarato, visibilmente spaventato, Jan Telesnikov, l’allenatore in seconda. Su questo brutto episodio, e quel che è successo immediatamente prima nella Gerusalemme che parla di calcio, ha scritto un bellissimo articolo Amos Barshad per Grantland.
Quando, qualche settimana dopo, uno dei due ceceni, Sadayev, ha messo a segno una rete, trecento persone, all’unisono, hanno voltato la schiena al campo e sono uscite dal Teddy Stadium in segno di protesta. Nessuno, davvero nessuno se l’è sentita di puntare un dollaro sull’ipotesi che magari Gaydamak con l’ingaggio dei ceceni volesse provare a contrastare, una volta per tutte, il razzismo al Teddy Stadium.
L’oligarca russo, dal luglio dell’anno appena passato, non è più proprietario del Beitar. È riuscito a cederlo a un altro controverso uomo d’affari, Eli Tabib, che ne ha rilevato il 75% delle quote. Il rimanente 25% è stato acquisito dalla tifoseria organizzata. Guy Israeli, in un certo qual senso, ha raggiunto il suo obiettivo: oggi il Beitar Gerusalemme è davvero un po’ suo.
Il primo impegno che s’è assunto Tabib è stato quello di verificare se sussistano o meno le condizioni per tesserare, finalmente, un calciatore arabo e scrollare via dalle pesanti maglie giallonere de La Menorah la coltre di polvere da sparo cosparsa da La Familia.
Un mese dopo il suo insediamento, qualcuno gli ha piazzato una granata sotto alla macchina. Ne è uscito indenne, ma c’è da giurare che l’ultimo capitolo sia ancora lontano dall’essere scritto. Per la Sindrome di Gerusalemme, dopotutto, a quanto pare, vaccini non ne esistono ancora.