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 2014  gennaio 17 Venerdì calendario

HO NOSTALGIA DI UN’AMERICA PIÙ INNOCENTE


Martin Scorsese ha voglia di parlare. Dell’America di ieri e di oggi, della censura, delle sue origini italiane e di cinema, l’argomento che più lo appassiona. È generoso di risposte, con il suo eloquio concitato, avvincente, spezzato da pause del pensiero, vivace come il suo sguardo acceso da un’espressione di curiosità perpetua. E gesticola, fa mille smorfie, non sta mai fermo.
Per l’ultimo film, The Wolf of Wall Street, la storia di Jordan Belfort, il broker che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, giovanissimo, accumulò una smisurata fortuna truffando risparmiatori e investitori, la stampa anglosassone si è sbizzarrita in aggettivi: esorbitante, strepitoso, estremo, allucinogeno, ma anche divertente, il più vicino alla potenza di Quei bravi ragazzi.
Concordi sono le previsioni di varie candidature all’Oscar, ma lui non sembra curarsene più di tanto. L’Academy non è mai stata troppo generosa con Scorsese. Perché, lui lo se lo spiega così: «Mi considerano un regista di genere e da Mean Street, il mio primo film importante, nel 1972, fino all’Oscar per The Departed, nel 2006, ne sono passati di anni prima che venissi riconosciuto come autore».
Regista di genere «capolavori». Dica la verità non bruciano tutte quelle statuette mancate? «Onestamente il mio obiettivo non sono mai stati i premi, a me interessa, mi è sempre interessato, solo continuare a fare i film. Certo è stato bello ricevere la statuetta, è arrivata in un buon momento della mia vita professionale e personale, e francamente non me l’aspettavo. Poi, però, tutto è tornato come prima, comprese le difficoltà che incontro ogni volta per trovare i finanziamenti: per The Wolf ci sono voluti cinque anni. È un film indipendente ma costoso, e la crisi economica ha scoraggiato i finanziatori. Spero che per il prossimo film, Silence, le cose vadano meglio».
Jordan Belfort è un uomo spensieratamente cinico e amorale, una vita dissipata tra denaro, sesso e droga: «Per girare le scene di sesso ho attinto dal patrimonio di esperienze di Leonardo DiCaprio» scherza il regista. Non ha avuto bisogno di consulenti, invece, per raccontare le droghe che in gioventù ha frequentato assiduamente e che nel film abbondano fino a trasformare il punto di vista del protagonista, alterato dalle sostanze, in una cifra stilistica. Leonardo DiCaprio, che del film è produttore e protagonista, si trasforma così fino a diventare ignobile, smodato, magnifico, anche nelle sequenze più triviali.
«Leo non ha paura di correre dei rischi, se crede in un progetto si mette in gioco senza limiti. Poche star di Hollywood la pensano così. È stato lui a portarmi il copione, è riuscito a farmi appassionare a un periodo storico dell’America così arido e avido. E quando ormai mi ero convinto a girare questo film ho capito che mi eccitava l’idea di entrarci dentro, di far parte della follia, dell’autodistruzione di quegli anni». «Un’epoca diversa dagli anni Cinquanta, in cui sono cresciuto» continua Scorsese che, nato nel ’42, evoca un Paese più innocente. «Certo, era anche più depresso» dice «ma onestamente non ricordo questa ossessione per la ricchezza, non era così, non ci credo. Invece è quello che sento oggi. Allora c’erano altre motivazioni nelle persone, la ricerca di un po’ di felicità, ma anche i diritti civili, la fine della schiavitù, valori che ancora resistono, ma mi preoccupa che per la maggioranza degli americani il primo pensiero sia “how much money”, quanti soldi posso guadagnare. Io sono cresciuto tra italiani, napoletani e siciliani, era un posto miserabile, ma pieno di buona gente, anche brava gente che faceva cose cattive perché spesso non aveva scelta. Ma allora c’era un rapporto con la povertà assoluta dei senzatetto, c’era solidarietà, li aiutavamo, eravamo consapevoli della loro realtà. Oggi c’è ancora chi aiuta i poveri, volontari laici o religiosi, anche mia figlia si impegna, ma è poca cosa, la povertà è un mondo a parte, c’è gente che soffre e muore per le strade nell’indifferenza. Eppure per giudicare un Paese bisogna vedere come si trattano i poveri. In questo senso il giudizio sull’America non è confortante. Con l’Obamacare proviamo a fare qualcosa, ma l’assurdità è che è affidato a un sistema di computer che non riesce a funzionare».
Le radici e l’infanzia a Little Italy («l’asma mi impediva di fare sport e passavo ore a guardare film») ricorrono nelle interviste di Scorsese, entrano anche nell’incontro con Robert De Niro, otto film insieme, con DiCaprio ancora solo cinque. «De Niro è l’unica persona che sa da dove vengo, conosce il mio ambiente, la mia famiglia, abbiamo vissuto la stessa durezza della strada. Sembrano storie romantiche, non lo erano affatto, era come vivere in un villaggio brutale nel mezzo dell’America, a sei blocchi di distanza dall’Università di New York il mondo cambiava completamente. Bob lo sa, anche se non viene da lì, il padre era un pittore, la madre un’intellettuale, ma lui era in uno dei tanti gruppi di ragazzi di strada, ha vissuto la stessa pressione e la stessa violenza. Il nostro prossimo incontro sarà in The Irishman, la storia di un vecchio mafioso che ripercorre il passato, ci saranno anche Joe Pesci e Al Pacino. Lavorare con Bob è come stare in famiglia, si discute, si litiga, si fa pace».
È lo stesso sentimento che Scorsese prova per DiCaprio. «Malgrado trent’anni di differenza, ha i miei stessi interessi, gli stessi gusti. Parliamo di Tarkovskij e lui descrive le sequenze di Solaris che piacciono a me, pensiamo le stesse cose, la sua passione per i film degli anni Novanta è la stessa che avevo io ragazzo per quelli degli anni Cinquanta e abbiamo in comune la voglia di conoscere il cinema che viene da altri Paesi». Con la stessa curiosità di quando scopriva il neorealismo o i francesi del dopoguerra, Scorsese, ragazzo di 71 anni, nei suoi film tocca temi diversi, dalla violenza all’alta società americana dell’Età dell’innocenza, alla vita del Dalai Lama in Kundun, per citarne alcuni, né si è mai spento l’interesse per il cinema dell’altrove. A Marrakech, dove ci incontriamo, ha stupito tutti per la conoscenza delle cinematografie anche più lontane.
Al Marocco è particolarmente legato, ha girato qui L’ultima tentazione di Cristo e gran parte di Kundun. «Sono state esperienze forti, è stato eccitante far parte di questo mondo, i miei nonni vengono dalla Sicilia, il paesaggio fisico e umano è simile. E amo il deserto, il suo silenzio aiuta la meditazione, avvicina alla spiritualità che non appartiene alla cultura americana». Ma durante le riprese di L’ultima tentazione di Cristo, ricorda con una delle sue risate comunicative, «ho avuto uno dei problemi più difficili della mia carriera: ricreare il fiume Giordano nel deserto. Da stupido newyorkese, non immaginavo che l’acqua sparisse così rapidamente nella sabbia!».
L’ultima tentazione di Cristo è uno dei film che gli hanno procurato più grane con la censura. «Combatto con la censura dagli inizi, è sempre stata un ostacolo. Il fatto è che la società cambia, cambia il metro di giudizio, non sai mai se devi stare attento alle immagini, al linguaggio, al messaggio. Anni fa ero arrabbiato, pensavo che tutti avessero il diritto, volendo, di vedere tutto. Da quando sono diventato padre le cose sono cambiate, se vado al cinema con mia figlia di 14 anni sto attento a quello che andiamo a vedere. Anche se con le tecnologie di oggi non credo sia facile proteggere i bambini».
Tra le passioni di Scorsese indomita è anche quella per la musica. La esprime con i videoclip - è suo Bad con Michael Jackson – e con documentari come Shine a Light. «Avevo parlato con Mick Jagger per anni, volevo catturare l’energia della musica dei Rolling Stones. Finalmente è arrivata l’occasione, per me è stata un’esplosione di libertà, mi ha aiutato a distaccarmi da The Departed, un film complesso, faticoso. A parte il film su Frank Sinatra, che prima o poi farò, ho altri progetti di documentari musicali, forse con la Hbo: l’esperienza della serie Boardwalk Empire è stata molto positiva, oggi la tv ti permette di fare il cinema che facevamo negli anni Settanta, quello che gli Studios non fanno più». Pause dal cinema gliele offre anche la pubblicità. «Faccio gli spot per tante ragioni. La necessità di racchiudere una storia in un minuto e mezzo è una grande lezione di sintesi. E il mondo della moda mi attrae, sono amico di Armani, mi piacciono i vestiti. Alla mia età ormai non cambio stile, ma negli anni Settanta mi divertivo a giocare con l’abbigliamento, in California portavo cappelli da cowboy, jeans e stivaletti, sulle colline di Hollywood le scarpe lucide non funzionano».
Gli anni Settanta Scorsese li ha vissuti in tutta la loro spericolatezza, gli stravizi, gli eccessi, una vita privata movimentata, cinque matrimoni, quattro divorzi, tre figli, l’ultima, la quattordicenne Francesca è dell’attuale moglie Helen Morris. Chissà se i suoi personaggi, spesso in cerca di redenzione, vengono dal superamento di quel periodo. «È vero, il tema della redenzione ricorre nei miei film, in Mean Streets come in Toro scatenato, quando il protagonista si guarda allo specchio e sente di non odiarsi tanto. Non ho fatto la stessa scena nella vita, ma mi identifico con il personaggio. Anche DiCaprio ha la sua redenzione in Shutter Island, ma in The Wolf non c’è nessuna redenzione né spiritualità, trionfano ignobili valori materiali». In compenso Scorsese si accinge a girare Silence, con Andrew Garfield. «La storia è vera, ambientata nel Giappone del XVII secolo, quando il governo costringeva i giapponesi cristiani a calpestare le immagini sacre di Gesù e della Madonna. Se rifiutavano venivano crocefissi, ne furono uccisi 37 mila. Il protagonista è un giovane prete mandato dalla Chiesa di Roma che, davanti a tanto orrore, cerca invano il conforto nella voce di Dio. Che cosa è veramente la fede, questo è il tema».