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 2014  gennaio 17 Venerdì calendario

SPIE, PASCIÀ, SCRITTORI. QUANDO ALLOGGIARE ERA QUESTIONE DI STILE


Prima di essere distrutto durante la guerra civile, l’Hotel Saint Georges di Beirut era l’albergo più amato e ricercato di tutto il Medio Oriente. Più del Baron di Aleppo, del Pera Palace di Istanbul e del Zenobia Palace Hotel di Palmyra. Era stato costruito alla fine dell’Ottocento davanti al mare, immerso in grandi cespugli di gelsomino orientale che mandavano un profumo avvertibile anche a distanza. Assomigliava più a una casa privata che a un albergo ed era gestito come tale. Bisognava sempre prenotare con grande anticipo, se non ti chiamavi Harry St John Philby o Glubb Pasha. Il primo, oltre a essere il padre di Kim, la celebre spia al servizio dei sovietici, era un apprezzato arabista che si era fatto musulmano e che aveva attraversato per primo le dune, considerate invalicabili, del Rub al Khali, il deserto più temibile del mondo. Un luogo punitivo dove una notte aveva sentito il lamento delle sabbie, un rumore fortissimo e minaccioso, dato dall’attrito di tonnellate di sabbia che precipitavano dall’alto delle dune. Anche quei tagliagole dei beduini erano rimasti terrorizzati.
Glubb Pasha era invece il creatore della Legione araba, l’unica formazione dei Paesi musulmani che fosse riuscita a fronteggiare con successo i soldati dell’Haganah, l’esercito israeliano. Il Saint Georges era frequentato anche dagli sceicchi wahabiti dell’Arabia Saudita, che venivano a giocare al Casino du Liban portandosi dietro forzieri con dentro migliaia di sovrane inglesi, che facevano rotolare sul tappeto verde al posto delle fiches di plastica.
È stato negli anni Venti e Trenta che si è affermato e consolidato il mito del grande albergo come unico luogo dove potessero alloggiare, in modo confacente alla loro vanità, i viaggiatori di riguardo (great people) e quelli molto ricchi (rich rich). In certi casi la scelta del grande albergo era obbligata perché l’alternativa al lusso sfrenato erano delle stamberghe impraticabili. Quello era un periodo in cui i ricchi non si vergognavano di far vedere quanto fossero ricchi e l’arrivo nel grande albergo faceva parte della commedia dei costumi, di genere anglosassone, con il viaggiatore che si faceva largo tra la folla dei pezzenti e dei miserabili che affollavano l’entrata, seguito da carriaggi che trasportavano valigie immense e bauli di cuoio grasso. Al loro interno erano sistemati con una tecnica sopraffina un numero inverosimile di vestiti, in modo che non si sgualcissero, e all’esterno quelle valigie erano ricoperte da centinaia di etichette dei più famosi alberghi del mondo. All’ingresso di quelli indiani c’erano sempre i sikh, esseri giganteschi ammantati di sete e con turbanti spettacolari che venivano presi regolarmente per maharaja da americani che si confondevano con facilità nel barocco indiano e non osavano dare loro la mancia, provocando l’ira dei guardiaportoni.
Somerset Maugham raggiungeva in nave, sempre con la Cunard Lines, il suo Oriente, dove andava a rovistare nel cesto dei panni sporchi dei coloniali britannici per trovare storie che ripeteva senza variare nei suoi magnifici libri di grande lettura. E arrivato a Singapore scendeva al Raffles, per anni il più celebrato albergo dei mari della Cina.
Cole Porter, il grande musicista americano, anche lui amante del Pacifico, andava oltre, fino a Pago Pago, dove non esistevano grandi hotel e si menava una vita meno faticosa e mondana. Ma anche a Pago Pago c’erano degli obblighi sociali, che a noi oggi appaiono eccessivamente snob, come il vestito da sera per la cena anche quando pioveva a dirotto o facevano quaranta gradi. E tutto si svolgeva come in una recita, che deliziava i viaggiatori: erano venuti per questo. La can zone Night and Day, scritta in un piccolo albergo, inizia con il ticchettio delle gocce della pioggia che cadono sul corrugated iron, lamiere di ferro ondulate, usate come copertura del tetto: «(…) Whether near to me or far. It’s no matter darling where you are, I think of you».
Nei grandi alberghi il servizio era sempre splendido. Quando uno arrivava allo Stanley and Livingstone, un hotel della Rhodesia vicino alle Victoria Falls, c’erano decine di valletti, inservienti, portaordini, lift-boys, curiosi che ti seguivano e ti servivano ogni volta che uscivi dal portone per fare una passeggiata. Il mangiare, anche nei grandi hotel europei, andava a fasi alterne: tutto era servito impeccabilmente e con spreco di cibo. Ma la nouvelle cuisine era ancora da venire e le pietanze non avevano conosciuto la rivoluzione mediterranea portata in Inghilterra da Elizabeth David. Si faceva una mescolanza tra la cucina inglese (Ancien Régime), la peggiore d’Euro pa, con l’eccezione del roastbeef, e quella francese di corte, con pietanze dai nomi altisonanti come la salsa Noyades de septembre o Les cailles en sarcophage che esigevano una estrema virtuosità in chi le preparava. E spesso le portate erano deludenti.
Molti grandi hotel erano stati costruiti in epoca vittoriana, all’insegna dell’imperialismo più convinto: i funzionari dell’impero che già faticavano a venire in posti così caldi e rischiosi per le malattie, si meritavano un comfort eccezionale. In questa maniera molti alberghi diventarono non solo un dormitorio di lusso, ma un club, un punto d’incontro, un luogo dove si poteva scambiare qualche frase per gli europei che abitavano fuori dal loro Paese. E qualcuno era visto a ragione come una roccaforte del potere coloniale, come il leggendario Shepheard’s del Cairo. Era arredato in stile edoardiano della XVIII dinastia (come dicevano ironici i francesi che abitavano al Cairo), con un salone centrale da cui partiva un’immensa scala di legno con due sculture di cariatidi nere nude, che mostravano le più belle tette dell’Africa settentrionale: questa era almeno l’opinione degli habitués dell’albergo. Durante la seconda guerra mondiale, nella terrazza che si affacciava su Ibrahim Pasha Street, si incontravano gli ufficiali dell’Ottava armata che parlavano liberamente ad alta voce del piano d’attacco preparato da Montgomery per sfondare la linea tedesca dell’Afrika Korps e degli italiani attestati a El Alamein. Detestato dagli egiziani come simbolo della sovranità britannica nel Paese, fu il primo edificio ad essere preso d’assalto e incendiato durante il colpo di stato nasseriano del 1952.
Durante gli anni Trenta Agatha Christie ambientò uno dei suoi gialli più famosi, Poirot sul Nilo, al Winter Palace di Luxor e dintorni, dove la sera tutti ballavano il foxtrot e le musiche di Cole Porter come I get a kick out of you. Ma l’albergo più spettacolare d’Egitto era l’ Hotel Cataract ad Assuan, che è ancora in piedi e ha una superba vista sul Nilo.
In Europa con tutto il loro lusso gli alberghi non potevano competere con la grandiosità e il basso costo della mano d’opera degli alberghi nelle colonie, ma avevano un prestigio forse superiore. A Londra una cena non era una cena se non si andava al Claridge’s o al Savoy, dove si poteva incontrare, durante la prima guerra mondiale, Winston Churchill in compagnia del suo amico e protettore Lloyd George. Ma l’albergo più efficiente d’Europa era, almeno fino a qualche anno fa, il Vier Jahreszeiten Kempinski di Monaco.
A Vienna gli italiani eleganti andavano sempre all’Hotel Sacher, forse attratti dal nome del dolce, ma il migliore era, e credo sia ancora, l’Hotel Imperial, dove si poteva mangiare un ottimo Teufel Goulash. A Parigi ci sono stati sempre molti stupendi alberghi come il George V nella via omonima. Ma nessuno ha mai battuto il Ritz a Place Vendôme, considerato l’apogeo degli alberghi francesi, frequentato nel dopoguerra da Hemingway, che qui veniva a raccontare le sue storie, mezze false e mezze vere, e a bere tosto con il suo amico Robert Capa – un grande fotografo che si concedeva qualche foto ad effetto come quella del soldato della guerra di Spagna che spalanca le braccia colpito a morte – dando fondo alle riserve della cantina (per modo di dire: le cantine del Ritz contenevano tante di quelle bottiglie che non sarebbe riuscite a berle tutte nemmeno Gargantua). Anni dopo un altro scrittore americano si materializzò davanti al bar, chiedendo, con voce che lasciava poche speranze, se per caso avessero la Verveine liqueur, non tisana. Il barman ce l’aveva, e da quel giorno Truman Capote riferì ai suoi amici che chi non conosceva la Verveine del Ritz non meritava di essere frequentato.