Daniela Minerva, L’Espresso 17/1/2014, 17 gennaio 2014
SANITÀ CRAC
Può capitare, in una tarda serata d’inverno di finire, per una sciocchezza, al Pronto soccorso. Basta un niente, un’aritmia cardiaca passeggera ed eccoci lì, nell’inferno dell’unico luogo dove trovano rifugio anziani, disabili di vario genere, povera gente che non sa che dove andare.
Lo abbiamo fatto. Abbiamo trascorso una notte al Pronto soccorso dell’ospedale San Carlo di Milano, un grande nosocomio di periferia. Chiuso nella nebbia del Lorenteggio, accerchiato da palazzoni grigi, strade senz’anima; poco lontano dai campi Rom e molto vicino al territorio di bande giovanili in guerra chissà perché. Affollato già alle sette di sera. E poi progressivamente sempre più inverosimile man mano che avanza la notte. Inverosimile se si va a cercare sui protocolli della buona sanità cosa deve essere un Pronto soccorso. Ci si deve aspettare l’arrivo di incidentati, di feriti, di persone colpite all’improvviso da attacchi di cuore o cerebrali. Insomma, gente che ha bisogno di quella che i manuali e le molte fiction televisive ci hanno presentato come "medicina d’urgenza".
E invece no. Sono coloro che non sanno dove andare i grandi protagonisti della scena, anziani soprattutto. Con l’influenza o in stato confusionale, dovuto magari a una caduta da niente che non ha ferito il corpo ma spiazzato la mente. Stanno lì, buttati tutti insieme. L’ottantenne che urla tutta notte improperi contro il figlio che chissà dov’è: non ha nulla, ma l’hanno portato lì perché non sanno occuparsene. Si alza più volte, accenna a rivestirsi e andarsene e gli infermieri gli ringhiano di stare buono, lo rimettono a letto con poche cerimonie. Accanto a lui, un metro al massimo, una signora caduta per uno scippo: niente di rotto ma la paura l’ha fatta strippare. Piange e chissà se si accorge che quell’uomo di fronte a lei ha sporcato il letto e che gli infermieri, brontolando sonoramente, puliscono senza neanche chiudere la tenda. E nel cambiarlo si lasciano dietro una scia di urina che si seccherà e resterà lì tutta la notte. Di certo lo nota quel cinquantenne in fibrillazione atriale: deve semplicemente essere monitorato finché il cuore non smetterà naturalmente di fare capricci; ma anche per lui l’unica chance è stata la lettiga dov’è finito a trascorrere la notte occupando spazio e sprecando risorse come quasi tutti quelli che sono lì invece che in una struttura molto più idonea a gestire la piccola patologia. Inevitabilmente più umana. Arriva però un giovanotto colpito da un’arma da fuoco e poi un povero ragazzo frantumato in un incidente di motocicletta che viene portato in sala operatoria e mobilita, finalmente all’uopo, la grande e costosa struttura di medicina d’emergenza.
E al cronista si palesano insieme le due grandi malattie della sanità post berlusconiana: troppa gente, anziani soprattutto buttati su un letto che costa oltre mille euro al giorno e un degrado che va di pari passo con la progressiva assenza di risorse e gestione economicistica dei luoghi di cura. Cominciamo dall’affollamento nei Pronto soccorso e nei reparti. Questo, infatti, accade, quasi ovunque: la gente non sa che fare, il medico di base è andato a cena e comunque non potrebbe fare gran ché nel suo studiolo, e va al Pronto soccorso. Che non può mandare i malati dove troverebbero la miglior cura: in strutture capaci di gestire un’influenza o un anziano malconcio, o nei reparti in caso di attacchi di cuore o di insufficienze respiratorie gravi, ad esempio, quando è necessaria una terapia medica specialistica. Non può farlo perché le strutture assistite sono pochissime e strapiene, come lo sono gli stessi reparti, ingolfati spesso perché costretti a tenersi i malati ben oltre il tempo necessario alla terapia ospedaliera: non sanno dove mandarli per le cure che devono comunque fare. I tagli hanno spazzato via molte strutture, magari sprecone e da riformare, che però servivano a questi pazienti che i clinici chiamano "postacuti". Gli stessi tagli che hanno giorno dopo giorno aumentato il degrado. Perché se non ci si capacita del fatto che, come abbiamo visto al San Carlo, uomini e donne convivano a frotte in stanzoni senza separazioni, resta pur vero che nei nosocomi assediati, privati di risorse e di personale, la dignità del malato può diventare un lusso. Se il cronista finisce per odiare con tutte le sue forze i due infermieri di turno che apostrofano i vecchi e non tirano le tende, resta il fatto che tutto quel carico di lavoro e sofferenza pesa su gente che guadagna meno di 1500 euro al mese, che ha subìto ristrutturazioni e tagli, che non viene mai e poi mai coinvolta nel governo dell’ospedale ormai in mano a quelli che i clinici definiscono con una punta di disprezzo "gli amministrativi".
TRENTA MILIARDI IN TRE ANNI
Il Pronto soccorso è la fotografia del sistema sanitario di un paese, e se basta una stagione influenzale debole, come quella in corso, a far salire del 30 per cento gli accessi, a riempire il Niguarda di Milano, a spingere i pazienti a sfondare la porta d’accesso del San Giovanni Bosco di Torino o a restare fino a cinque giorni su una barella qualunque in attesa di un ricovero a Roma vuol dire che le cose non sono più sotto controllo. E che, di conseguenza, la maggior parte dei cittadini italiani non ha buona assistenza. Lo racconta l’incessante ritornello delle cronache locali; lo dimostrano le cifre del Rapporto Oasi del Cergas Bocconi che sarà presentato nei prossimi giorni, e che "l’Espresso" anticipa qui.
Così è andata: dall’estate del 2011 a oggi Asl e ospedali hanno perso 30 miliardi di finanziamenti e centinaia di operatori andati in pensione e mai sostituiti. Mentre è lettera morta la promessa di avere sparsi ovunque piccoli presidi sanitari capaci di gestire gli anziani e le patologie meno gravi per lasciare ai grandi ospedali solo quei malati che hanno bisogno di medicina d’urgenza o altamente specializzata. Da quell’estate in poi, tre ministri hanno allestito altrettanti piani e decine di "tavoli" per farlo, ma ben poco è stato realizzato; e il decreto ad hoc emanato da Renato Balduzzi nel 2012 è quasi ovunque inattuato. Serve a poco a dire che ci sono regioni - Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Marche e Veneto, di fatto - dove quello che burocraticamente si chiama "il territorio" è da anni potenziato e altre, come la Lombardia dove si prova, con scarsi successi, a farlo. Nel resto del Paese non c’è proprio niente. Eppure non si può fare diversamente. E sulla carta sembra persino semplice: organizzare i medici di base di modo che servano i loro malati 24 ore al giorno, in luoghi capaci di gestire piccolissime patologie, come l’influenza; avere assistenza domiciliare per i malati cronici e gli anziani e presidi capaci di accogliere i dimessi dagli ospedali e bisognosi di riabilitazione o altra assistenza.
A leggere il Rapporto Oasi della Bocconi, invece, emerge chiaramente che mezz’Italia è sanitariamente al crack: l’austerità ha rimesso in gran parte i conti in ordine ma ha creato una crescente inadeguatezza dei servizi. La buona notizia, però, c’è. Ed è nella legge di stabilità: per la prima volta dal 2011 il Fondo sanitario cresce, di due miliardi. Non solo: le strutture sanitarie del Paese indicheranno dove e come fare i tagli della spending review; e il governo ha promesso che tutti i denari risparmiati saranno reinvestiti nel Ssn. «È una grande occasione. Ci dà il fiato per poter fare le riforme», chiosa il presidente dell’Agenas (l’agenzia per i servizi sanitari regionali) Giovanni Bissoni. Un’occasione, dunque. Ma per capire il da farsi serve un passo indietro. E bisogna tornare ai dati della Bocconi.
OCCHIO AI SOLDI, NON AI MALATI
Perché per la prima volta è proprio il dossier degli economisti più blasonati d’Italia a indicare il disastro della gestione economicistica della sanità. A partire dagli effetti dei cosiddetti Piani di rientro imposti alle regioni con deficit monster (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia). I bocconiani hanno fatto i conti e misurato che «il disavanzo annuale del Ssn è notevolmente ridimensionato, sceso dall 17, 3 per cento del 2011 allo 0,9. E questo anche perché scende il deficit sanitario delle regioni con Piano di rientro». Ma, continua Elena Cantù, coordinatrice del Rapporto Oasi: «Questo non trova corrispondenza sul piano della capacità di rispondere ai bisogni e di erogare servizi. I Piani di rientro non sembrano sin ora stati capaci di attivare processi di positiva evoluzione organizzativa».
Insomma, messe sotto tutela dal governo perché troppo indebitate le regioni spendaccione hanno risposto innanzitutto imponendo tasse locali, e poi sforbiciando a caso gli ospedali senza organizzare l’assitenza ai malati che deve esserci fuori dai loro cancelli. E questo perché, sottolinea ancora Giovanni Bissoni: «I Piani hanno avuto la finalità di di ridurre la spesa. Ma hanno promosso pochissimo la riorganizzazione dei servizi come invece avrebbero dovuto. Così è accaduto che, per lo più, essi sono peggiorati». E non ci si deve stupire a leggere nel rapporto fatto dalla stessa Agenas, che in Campania e Calabria l’assistenza negli ospedali è peggiore che altrove, o che un grande nosocomio come quello di San Giovanni Rotondo in Puglia è costretto a sospendere l’erogazione di una terapia salvavita per l’epatite C, come hanno denunciato i malati raccolti nell’associazione Epac.
L’austerità ha fatto molto più male nelle regioni del centro-sud; il risultato è che oggi il nostro è il Paese con maggiore disparità territoriale in Europa, in materia di sanità. E, sintetizza Bissoni: «L’Italia è divisa in due ancora più di ieri. Questi tre anni sono stati terribili per tutti. Dalle Marche in su i sistemi hanno più o meno retto, altrove, purtroppo, no». E non è neppure che gli italiani abbiano deciso di spendere di tasca propria per curarsi. Anzi: «La spesa privata è calata. E le differenze tra le regioni in merito non sono legate al funzionamento della sanità pubblica, ma ai diversi livelli di reddito. Le regioni meridionali sono infatti quelle in cui i cittadini spendono meno anche in sanità privata», conclude Elena Cantù. Insomma: dove il reddito è più basso, la gente semplicemente non si cura.
MANO TESA DEL GOVERNO
Ma i soldi messi a disposizione dal Patto di stabilità sono oggi l’occasione per invertire la rotta: «Adesso bisogna utilizzare questa boccata di ossigeno per accelerare la riorganizzazione», sentenzia Bissoni: «E puntare dritti all’obiettivo che ci si è posti per avere una sanità moderna: ridurre ancora i posti letto in ospedale, che devono scendere a 3,7 per mille abitanti, riorganizzando i Pronto soccorso, medici di base e le strutture capaci di accogliere degnamente anziani e lungodegenti».
È un rebus senza soluzione: senza ridurre gli accessi agli ospedali, non si riesce a renderli altamente specializzati e capaci di rispondere al meglio a malattie gravi - dal cancro a quelle neurologiche, a quelle dovute a traumi - perché non ci sono soldi e i sanitari sono ingolfati da bambini con l’influenza e anziani in stato confusionale. I dati Oasi ci mostrano che ancor oggi i ricoveri degli over-65 vanno ben oltre le esigenze reali (vedi tabella qui sopra). Ma contemporaneamente se non ci sono i denari per offrire un’alternativa, fare un accordo coi dottori di base e convincerli a creare i presidi attivi H24 ad esempio, medici ospedalieri e cittadini non sanno che fare. Ed è sempre l’Oasi a mostrare che ancora oggi dai reparti di chirurgia (dove dovrebbero trovarsi persone che hanno avuti interventi chirurgici seri) vengono dimessi malati che hanno, invece, ricevuto solo cure mediche, magari banali (vedi tabella qui sopra). Nelle more di questo rebus imperversano "gli amministratori" che danno seguito al mandato di «ridurre i posti letto» e di «riorganizzare la rete ospedaliera»: i due mantra che hanno portato sin qui al disastro nel centro-sud e una serie incessante di disservizi in tutti il Paese. Perché attuati senza tenere presente quella che in sanitese si chiama «operatività delle reti cliniche». E che prende forma, ad esempio, nel paradosso lombardo: la giunta di Maroni dovrebbe chiudere 170 piccoli ospedali perché la riorganizzazione firmata Balduzzi chiede di eliminare quelli con meno di 120 letti. Ma se ciò accadesse, la regione finirebbe con l’avere solo 2,59 posti per mille abitanti, ben al di sotto di quanto posto come obiettivo dallo stesso decreto.
«Per mettere in ordine la sanità serve un grande sostegno progettuale. Che non c’è», conclude Bissoni. Le fila le tira il ministero dell’Economia. Quello della Salute può solo sgridare gli inadempienti, è un ministero debole. Beatrice Lorenzin ha un bel da annunciare un nuovo e potente Patto per la salute entro la primavera. Tutti sanno che poi ad attuarlo saranno i Governatori, ognuno per i fatti sui. Che se la vedranno con Saccomanni o chi per lui. Insomma, rischia di prevalere ancora la logica dei conti in ordine a scapito dei malati. Come ben dimostrano gli effetti del blocco del turn over tra medici e infermieri che raccontiamo nelle pagine che seguono.