Mauro Pianta, La Stampa 17/1/2014, 17 gennaio 2014
Mauro Pianta I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile
Mauro Pianta I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile. Accanto ai don Bosco, i Cottolengo, i Cafasso, i Murialdo, i Faà di Bruno, vi fu anche una figura femminile ancora poco conosciuta: la marchesa Giulia di Barolo. Lei, Juliette Colbert, cattolicissima aristocratica francese andata in sposa al marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, tecnicamente non è ancora santa: per la Chiesa è una Serva di Dio, probabilmente diventerà venerabile (il gradino prima della beatificazione e poi dell’onore degli altari che potrebbe condividere con il marito) proprio nel 2014, a 150 anni dalla morte avvenuta il 19 gennaio 1864. Anche di questo si parlerà nel convegno organizzato dall’Opera Pia Barolo in programma domani a Torino, a Palazzo Barolo. Bella sul serio, Juliette (perfino Napoleone tentò un assalto galante ma venne respinto). Ma anche colta, ricca, capace di mettere in campo tutto il suo patrimonio, il prestigio e il talento per aiutare gli ultimi. Ha fondato scuole, asili, ospedali, congregazioni religiose. Ma la sua vocazione fu il carcere. Entra negli istituti di pena, all’epoca vere discariche sociali, insegna a leggere e scrivere alle detenute, va a cercare i giudici che si «dimenticano» di processarle, condivide intere giornate con loro, viene anche picchiata, ma non molla mai. Presenta un progetto di riforma accolto nel 1821, redige regolamenti discussi con le detenute e fonda un centro di reinserimento per ex carcerate. Le detenute lavoravano e imparavano a diventare responsabili. «Per l’epoca», spiega suor Ave Tago, autrice di una monumentale biografia, «fu un’autentica rivoluzione. Veniva affermato concretamente il principio per cui la prigione non può essere solo pena, ma anche riabilitazione». Certo, la marchesa aveva il suo caratterino: ostinata, impulsiva, battagliera. Non tutti l’amavano. Osserva la storica Lucetta Scaraffia: «I liberali la accusarono di ogni nefandezza, ma anche i cattolici oltranzisti non apprezzarono il suo anticonformismo e questo spiega i ritardi verso la beatificazione. Alcuni giornali pubblicarono la notizia (falsa) del matrimonio con il suo bibliotecario, Silvio Pellico, avvenuto durante un viaggio. Insomma, sarebbe ora di finirla con i cliché della dama di beneficenza bigotta: Giulia è stata una pioniera del rispetto della dignità femminile». I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile. Accanto ai don Bosco, i Cottolengo, i Cafasso, i Murialdo, i Faà di Bruno, vi fu anche una figura femminile ancora poco conosciuta: la marchesa Giulia di Barolo. Lei, Juliette Colbert, cattolicissima aristocratica francese andata in sposa al marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, tecnicamente non è ancora santa: per la Chiesa è una Serva di Dio, probabilmente diventerà venerabile (il gradino prima della beatificazione e poi dell’onore degli altari che potrebbe condividere con il marito) proprio nel 2014, a 150 anni dalla morte avvenuta il 19 gennaio 1864. Anche di questo si parlerà nel convegno organizzato dall’Opera Pia Barolo in programma domani a Torino, a Palazzo Barolo. Bella sul serio, Juliette (perfino Napoleone tentò un assalto galante ma venne respinto). Ma anche colta, ricca, capace di mettere in campo tutto il suo patrimonio, il prestigio e il talento per aiutare gli ultimi. Ha fondato scuole, asili, ospedali, congregazioni religiose. Ma la sua vocazione fu il carcere. Entra negli istituti di pena, all’epoca vere discariche sociali, insegna a leggere e scrivere alle detenute, va a cercare i giudici che si «dimenticano» di processarle, condivide intere giornate con loro, viene anche picchiata, ma non molla mai. Presenta un progetto di riforma accolto nel 1821, redige regolamenti discussi con le detenute e fonda un centro di reinserimento per ex carcerate. Le detenute lavoravano e imparavano a diventare responsabili. «Per l’epoca», spiega suor Ave Tago, autrice di una monumentale biografia, «fu un’autentica rivoluzione. Veniva affermato concretamente il principio per cui la prigione non può essere solo pena, ma anche riabilitazione». Certo, la marchesa aveva il suo caratterino: ostinata, impulsiva, battagliera. Non tutti l’amavano. Osserva la storica Lucetta Scaraffia: «I liberali la accusarono di ogni nefandezza, ma anche i cattolici oltranzisti non apprezzarono il suo anticonformismo e questo spiega i ritardi verso la beatificazione. Alcuni giornali pubblicarono la notizia (falsa) del matrimonio con il suo bibliotecario, Silvio Pellico, avvenuto durante un viaggio. Insomma, sarebbe ora di finirla con i cliché della dama di beneficenza bigotta: Giulia è stata una pioniera del rispetto della dignità femminile». I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile. Accanto ai don Bosco, i Cottolengo, i Cafasso, i Murialdo, i Faà di Bruno, vi fu anche una figura femminile ancora poco conosciuta: la marchesa Giulia di Barolo. Lei, Juliette Colbert, cattolicissima aristocratica francese andata in sposa al marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, tecnicamente non è ancora santa: per la Chiesa è una Serva di Dio, probabilmente diventerà venerabile (il gradino prima della beatificazione e poi dell’onore degli altari che potrebbe condividere con il marito) proprio nel 2014, a 150 anni dalla morte avvenuta il 19 gennaio 1864. Anche di questo si parlerà nel convegno organizzato dall’Opera Pia Barolo in programma domani a Torino, a Palazzo Barolo. Bella sul serio, Juliette (perfino Napoleone tentò un assalto galante ma venne respinto). Ma anche colta, ricca, capace di mettere in campo tutto il suo patrimonio, il prestigio e il talento per aiutare gli ultimi. Ha fondato scuole, asili, ospedali, congregazioni religiose. Ma la sua vocazione fu il carcere. Entra negli istituti di pena, all’epoca vere discariche sociali, insegna a leggere e scrivere alle detenute, va a cercare i giudici che si «dimenticano» di processarle, condivide intere giornate con loro, viene anche picchiata, ma non molla mai. Presenta un progetto di riforma accolto nel 1821, redige regolamenti discussi con le detenute e fonda un centro di reinserimento per ex carcerate. Le detenute lavoravano e imparavano a diventare responsabili. «Per l’epoca», spiega suor Ave Tago, autrice di una monumentale biografia, «fu un’autentica rivoluzione. Veniva affermato concretamente il principio per cui la prigione non può essere solo pena, ma anche riabilitazione». Certo, la marchesa aveva il suo caratterino: ostinata, impulsiva, battagliera. Non tutti l’amavano. Osserva la storica Lucetta Scaraffia: «I liberali la accusarono di ogni nefandezza, ma anche i cattolici oltranzisti non apprezzarono il suo anticonformismo e questo spiega i ritardi verso la beatificazione. Alcuni giornali pubblicarono la notizia (falsa) del matrimonio con il suo bibliotecario, Silvio Pellico, avvenuto durante un viaggio. Insomma, sarebbe ora di finirla con i cliché della dama di beneficenza bigotta: Giulia è stata una pioniera del rispetto della dignità femminile». I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile. Accanto ai don Bosco, i Cottolengo, i Cafasso, i Murialdo, i Faà di Bruno, vi fu anche una figura femminile ancora poco conosciuta: la marchesa Giulia di Barolo. Lei, Juliette Colbert, cattolicissima aristocratica francese andata in sposa al marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, tecnicamente non è ancora santa: per la Chiesa è una Serva di Dio, probabilmente diventerà venerabile (il gradino prima della beatificazione e poi dell’onore degli altari che potrebbe condividere con il marito) proprio nel 2014, a 150 anni dalla morte avvenuta il 19 gennaio 1864. Anche di questo si parlerà nel convegno organizzato dall’Opera Pia Barolo in programma domani a Torino, a Palazzo Barolo. Bella sul serio, Juliette (perfino Napoleone tentò un assalto galante ma venne respinto). Ma anche colta, ricca, capace di mettere in campo tutto il suo patrimonio, il prestigio e il talento per aiutare gli ultimi. Ha fondato scuole, asili, ospedali, congregazioni religiose. Ma la sua vocazione fu il carcere. Entra negli istituti di pena, all’epoca vere discariche sociali, insegna a leggere e scrivere alle detenute, va a cercare i giudici che si «dimenticano» di processarle, condivide intere giornate con loro, viene anche picchiata, ma non molla mai. Presenta un progetto di riforma accolto nel 1821, redige regolamenti discussi con le detenute e fonda un centro di reinserimento per ex carcerate. Le detenute lavoravano e imparavano a diventare responsabili. «Per l’epoca», spiega suor Ave Tago, autrice di una monumentale biografia, «fu un’autentica rivoluzione. Veniva affermato concretamente il principio per cui la prigione non può essere solo pena, ma anche riabilitazione». Certo, la marchesa aveva il suo caratterino: ostinata, impulsiva, battagliera. Non tutti l’amavano. Osserva la storica Lucetta Scaraffia: «I liberali la accusarono di ogni nefandezza, ma anche i cattolici oltranzisti non apprezzarono il suo anticonformismo e questo spiega i ritardi verso la beatificazione. Alcuni giornali pubblicarono la notizia (falsa) del matrimonio con il suo bibliotecario, Silvio Pellico, avvenuto durante un viaggio. Insomma, sarebbe ora di finirla con i cliché della dama di beneficenza bigotta: Giulia è stata una pioniera del rispetto della dignità femminile». I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile. Accanto ai don Bosco, i Cottolengo, i Cafasso, i Murialdo, i Faà di Bruno, vi fu anche una figura femminile ancora poco conosciuta: la marchesa Giulia di Barolo. Lei, Juliette Colbert, cattolicissima aristocratica francese andata in sposa al marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, tecnicamente non è ancora santa: per la Chiesa è una Serva di Dio, probabilmente diventerà venerabile (il gradino prima della beatificazione e poi dell’onore degli altari che potrebbe condividere con il marito) proprio nel 2014, a 150 anni dalla morte avvenuta il 19 gennaio 1864. Anche di questo si parlerà nel convegno organizzato dall’Opera Pia Barolo in programma domani a Torino, a Palazzo Barolo. Bella sul serio, Juliette (perfino Napoleone tentò un assalto galante ma venne respinto). Ma anche colta, ricca, capace di mettere in campo tutto il suo patrimonio, il prestigio e il talento per aiutare gli ultimi. Ha fondato scuole, asili, ospedali, congregazioni religiose. Ma la sua vocazione fu il carcere. Entra negli istituti di pena, all’epoca vere discariche sociali, insegna a leggere e scrivere alle detenute, va a cercare i giudici che si «dimenticano» di processarle, condivide intere giornate con loro, viene anche picchiata, ma non molla mai. Presenta un progetto di riforma accolto nel 1821, redige regolamenti discussi con le detenute e fonda un centro di reinserimento per ex carcerate. Le detenute lavoravano e imparavano a diventare responsabili. «Per l’epoca», spiega suor Ave Tago, autrice di una monumentale biografia, «fu un’autentica rivoluzione. Veniva affermato concretamente il principio per cui la prigione non può essere solo pena, ma anche riabilitazione». Certo, la marchesa aveva il suo caratterino: ostinata, impulsiva, battagliera. Non tutti l’amavano. Osserva la storica Lucetta Scaraffia: «I liberali la accusarono di ogni nefandezza, ma anche i cattolici oltranzisti non apprezzarono il suo anticonformismo e questo spiega i ritardi verso la beatificazione. Alcuni giornali pubblicarono la notizia (falsa) del matrimonio con il suo bibliotecario, Silvio Pellico, avvenuto durante un viaggio. Insomma, sarebbe ora di finirla con i cliché della dama di beneficenza bigotta: Giulia è stata una pioniera del rispetto della dignità femminile». I «santi sociali», quel drappello di uomini che incendiarono la Torino dell’800 con il fuoco della loro creativa capacità di bene, non furono un fenomeno esclusivamente maschile. Accanto ai don Bosco, i Cottolengo, i Cafasso, i Murialdo, i Faà di Bruno, vi fu anche una figura femminile ancora poco conosciuta: la marchesa Giulia di Barolo. Lei, Juliette Colbert, cattolicissima aristocratica francese andata in sposa al marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, tecnicamente non è ancora santa: per la Chiesa è una Serva di Dio, probabilmente diventerà venerabile (il gradino prima della beatificazione e poi dell’onore degli altari che potrebbe condividere con il marito) proprio nel 2014, a 150 anni dalla morte avvenuta il 19 gennaio 1864. Anche di questo si parlerà nel convegno organizzato dall’Opera Pia Barolo in programma domani a Torino, a Palazzo Barolo. Bella sul serio, Juliette (perfino Napoleone tentò un assalto galante ma venne respinto). Ma anche colta, ricca, capace di mettere in campo tutto il suo patrimonio, il prestigio e il talento per aiutare gli ultimi. Ha fondato scuole, asili, ospedali, congregazioni religiose. Ma la sua vocazione fu il carcere. Entra negli istituti di pena, all’epoca vere discariche sociali, insegna a leggere e scrivere alle detenute, va a cercare i giudici che si «dimenticano» di processarle, condivide intere giornate con loro, viene anche picchiata, ma non molla mai. Presenta un progetto di riforma accolto nel 1821, redige regolamenti discussi con le detenute e fonda un centro di reinserimento per ex carcerate. Le detenute lavoravano e imparavano a diventare responsabili. «Per l’epoca», spiega suor Ave Tago, autrice di una monumentale biografia, «fu un’autentica rivoluzione. Veniva affermato concretamente il principio per cui la prigione non può essere solo pena, ma anche riabilitazione». Certo, la marchesa aveva il suo caratterino: ostinata, impulsiva, battagliera. Non tutti l’amavano. Osserva la storica Lucetta Scaraffia: «I liberali la accusarono di ogni nefandezza, ma anche i cattolici oltranzisti non apprezzarono il suo anticonformismo e questo spiega i ritardi verso la beatificazione. Alcuni giornali pubblicarono la notizia (falsa) del matrimonio con il suo bibliotecario, Silvio Pellico, avvenuto durante un viaggio. Insomma, sarebbe ora di finirla con i cliché della dama di beneficenza bigotta: Giulia è stata una pioniera del rispetto della dignità femminile».