Fabrizio Paladini, Panorama 16/1/2014, 16 gennaio 2014
CAUSE PERSE
«Una volta i clienti bussavano alla porta dello studio con i piedi perché in mano avevano mille regali: bottiglie, prosciutti, polli vivi... Oggi bussano, tu apri e quelli già stanno col dito puntato per dirti: “Avvoca’, non ci ho un euro, non posso pagarla”. Oppure: “Se non mi fa ottenere quello che chiedo le faccio una azione di responsabilità”». Il pianto Grego, ovvero di Enrico Grego, uno dei più conosciuti avvocati matrimonialisti di Genova, è un po’ il pianto di tutti i suoi colleghi.
Bei tempi, quando l’avvocato, con il notaio, il farmacista e il parroco era uno dei fondamentali punti di riferimento della società. I dati della catastrofe forense dicono che il reddito medio di un avvocato (vedere il grafico nelle pagine successive). è diminuito negli ultimi cinque anni del 15 per cento. Quelli ufficiosi arrivano anche al 50 per cento. Un esercito di oltre 233 mila toghe affolla i piazzali dei tribunali, in cerca di lavoro, e in molti casi non lo trova.
Ci sono avvocati che a fine mese tirano su una miseria, 400-500 euro, peggio di un addetto precario alle pulizie, peggio del ventenne di un call center. E la crisi crea concorrenza sleale: si moltiplicano le offerte low cost di giovani o meno giovani professionisti che, pur di accaparrarsi un cliente, accettano cause e processi a prezzi stracciati. Così, una separazione consensuale che mediamente viene pagata 1.500 euro può essere seguita per 150, un decimo della tariffa media.
Dice il professor Guido Alpa, presidente del Consiglio nazionale forense: «È un fenomeno che ci deprime, svilisce il nostro ruolo, il nostro lavoro. Offrire prestazioni di modesta qualità a prezzi contenuti è la nuova tendenza. Noi l’abbiamo sempre contrastata, scontrandoci anche con l’Antitrust, perché crediamo che la concorrenza non possa e non debba spingersi al punto di legittimare l’offerta di prestazioni professionali che siano qualitativamente deteriori semplicemente perché il confronto si deve fare sul prezzo».
TROPPI ISCRITTI ALL’ORDINE
Già nel 1921 Piero Calamandrei scriveva un libro profeticamente intitolato Troppi avvocati. Se erano in troppi 90 anni fa, figuriamoci oggi. Dai 38 mila iscritti all’Ordine nel 1985, oggi abbiamo superato i 233 mila. Ogni anno in 30 mila provano a dare l’esame di Stato e circa la metà riesce a passarlo. Dunque ogni anno l’esercito arruola 15 mila nuovi professionisti, affamati e in cerca di lavoro. Per avere un’idea di come vadano le cose nel resto d’Europa (vedere grafico in basso), in Francia, un paese con una popolazione simile all’Italia ma con una superficie più ampia, gli avvocati attivi sono meno di 54 mila con un rapporto di 1 avvocato ogni 1.300 abitanti: il record italiano è di 1 avvocato ogni 246 abitanti, ma in Calabria si arriva a 1 ogni 150 (vedere la scheda a pagina 73). In Italia i patrocinanti in Cassazione sono 46 mila, in Francia gli studi ammessi alle cause dell’ultimo grado di giudizio sono appena 98. Ci dev’essere qualcosa che non funziona.
Dice Massimiliano Cesali, presidente dell’associazione Movimento forense: «Sono in crisi i grandi studi, sono in crisi grave gli studi di media importanza, sono alla fame i piccoli. Perché? Chi ha come clienti gli enti pubblici è in difficoltà perché non pagano se non a 6 mesi, 1 anno. Devi anticipare il lavoro e le spese; nel frattempo paghi i dipendenti, molto spesso altri avvocati che prendono da 300 a 500 euro al mese: colleghi che non hanno uno studio proprio e sono disoccupati. Negli studi medi o medio-piccoli la concorrenza è sfrenata, le imprese pagano poco e male, i privati anche peggio».
Ecco l’analisi di Grego: «Una professione bellissima si è trasformata in attività imprenditoriale. Oggi l’avvocato accetta il rischio d’impresa e la sua non è più una prestazione d’opera ma una prestazione a risultato: od ottieni quello che chiedo e ti pago, oppure zero. L’avvocato dunque non è più filtro, ma diventa una parte e quindi ha meno credibilità. Poi, siamo in troppi. A Genova c’è un avvocato ogni 170 abitanti, bambini compresi. Questa corsa al ribasso dequalifica, ma alla fine la paga il cliente. E alla fine si tornerà a cercare la qualità».
Michele Dell’Agli e Gianluca Gulino sono due amici e colleghi in un avviato studio di Ragusa. Sulla breccia da tempo, hanno vissuto l’ultimo biennio come un incubo. Gulino: «La professione è morta. È come se fossimo in un suq a comprare tappeti. La categoria manca di competenza e abbiamo perso credibilità agli occhi di cittadini e magistrati. Secondo la Cassa di previdenza, il 60 per cento dei colleghi non riuscirà a pagare i contributi». Rincara Dell’Agli: «Una volta, su dieci clienti, mettevo nel conto che due non avrebbero pagato. Oggi un colletto bianco che mi deve 1.500 euro me li versa in 5 mesi, in rate da 300. Ci vorrebbe il numero chiuso nelle università e un esame unico a Roma, e solo per cominciare a scremare».
UN LAVORO COME RIPIEGO
La verità, dicono tutti i legali interpellati all’unisono, giovani e anziani, è che mentre una volta si sceglieva di fare la professione, oggi fare l’avvocato è diventato un ripiego. Chi, dopo la laurea in Giurisprudenza, viene bocciato all’esame da magistrato, a quello da notaio, a quello di funzionario di Polizia, a quello per un ministero, per l’Inps, per una prefettura, tenta l’ultima spiaggia all’esame di abilitazione forense. E siccome gli esami tanto difficili non sono, e vengono svolti in ogni sede di corte d’appello, ci sono sedi più «toste» e altre più facili.
Per capire l’alta considerazione di questo esame basta raccontare che nel 2011 il concorso a Milano si teneva al Forum di Assago. C’erano 3 mila persone. La sera, nello stesso spazio si sarebbe esibito il cantante rock Lenny Kravitz, che ovviamente fece le prove mentre era in corso l’esame scritto. Immaginate la concentrazione e la gioia degli aspiranti avvocati. Da quest’anno, per rendere un po’ più complicato il percorso, l’aspirante avvocato dovrà, dopo i 18 mesi di praticantato e prima dell’esame, frequentare dei corsi di formazione obbligatori.
Un altro elemento che ha impoverito la categoria è stato l’eliminazione delle tariffe minime. Nelle intenzioni della politica, le famose «lenzuolate» dell’allora ministro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani del 2006-2007, le liberalizzazioni dovevano servire a favorire la competitività e a far risparmiare il cittadino. Prosegue Cesali: «Invece se ne sono avvantaggiate solo banche e assicurazioni che hanno lobby molto più potenti della nostra in Parlamento».
Il risultato finale? Per Cesali «qualunque grosso cliente che lavora su grandi numeri troverà sempre uno studio che gli preparerà un decreto ingiuntivo a meno di quanto lo fatturerei io. Quindi diventa una giungla. Immaginiamo una compagnia di assicurazioni che ti garantisce un bel numero di cause ogni anno. Per l’ordinaria amministrazione farà una gara al ribasso e troverà sempre qualcuno disposto ad abbassare le sue richieste. Insomma, non c’è limite al minimo».
PARCELLE IN DISCESA DEL 30%
Così, gli studi legali che vogliono lavorare devono abbassare del 30, anche del 40 per cento le tariffe e soprattutto devono intraprendere guerre nemmeno fossero due pizzerie sullo stesso marciapiede. «Ma la colpa è anche nostra» chiosa Cesali. «Ci sono molti colleghi che hanno esagerato con parcelle fuori mercato favorendo la diffidenza dei clienti. Ma gli organi di rappresentanza che dovrebbero vigilare non fanno bene il loro lavoro e non hanno né autorità né autorevolezza».
Sul sito Groupon, uno dei più conosciuti portali di offerte, tra ristoranti e massaggi, tra attrezzi da ginnastica e bottiglie di vino ci sono anche gli avvocati: «Tariffe scontate al 70 per cento a Torino», e anche «Spese legali stracciate a Firenze». Proprio l’Ordine di Firenze ha aperto un’istruttoria sullo studio d’infortunistica di Pistoia che su Groupon si era fatto pubblicità così: «Una trattazione di un procedimento stragiudiziale senza ricorrere alle vie legali a 39 euro anziché 500, oppure due procedimenti a 69 euro anziché 1.000». Secondo l’Ordine questa pubblicità viola alcune regole deontologiche della professione (divieto di acquisizione di clienti a mezzo di agenzie o procacciatori, comportamento ispirato a correttezza e lealtà) ma le tentazioni di abbassare le richieste sono grandi, a fronte dell’enorme numero di avvocati disoccupati o sottoccupati.
Ci sono poi i negozi giuridici, o legal shop, con tanto di vetrine su strada. Nati nei paesi del Nord Europa, sono vere e proprie botteghe dove il cliente può chiedere un parere, un consiglio, e spesso sono patrocinate da associazioni dei consumatori. Possono farsi pubblicità e spesso mettono sulla vetrina il prezzario con scritto «Consulenza legale a 50 euro». Nati intorno al 2007-8, all’inizio hanno conosciuto un buon successo, ma dopo poco, soprattutto nelle città piccole e medie, il cittadino è tornato a preferire il classico studio legale. Comunque i prezzi stracciati di Groupon, i low cost e i negozi giuridici hanno dato un altro colpo alla credibilità della categoria. Nicola Marino, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura, il braccio «politico» degli avvocati, ha qualche idea: «L’iscrizione obbligatoria alla Cassa previdenziale che dovrebbe entrare in vigore la prossima estate opererà di fatto una scrematura. Poi verrà il numero programmato nelle università, una misura un po’ meno radicale del numero chiuso».
Ma come mai, pur con tutti gli avvocati in Parlamento, la categoria è così bistrattata anche politicamente? Dice ancora Marino: «Il parlamentare, anche se è avvocato, vota in base ai voleri delle segreterie. Le lobby di banche e assicurazioni sono più forti perché riescono a condizionare i voti: hanno il potere economico vero, pesante». Al ministero della Giustizia contano solo i magistrati e gli avvocati, pur essendo tanti, non vengono presi in considerazione.
Sottolinea Alpa: «Ci vogliono il numero chiuso all’università e un esame selettivo. Il numero degli avvocati da Parlamento e ministero. L’avvocato italiano ormai dovrebbe capire che le sue competenze si devono estendere al di là dei confini nazionali: bisogna superare l’aspetto provinciale della formazione ed è fondamentale riguadagnare la fiducia attraverso un lavoro diverso dalla causa in giudizio. L’avvocato deve tornare a essere un consulente della famiglia, di un’azienda, e prevenire la lite. Questa sì, sarebbe una grande vittoria per la nostra categoria».