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 2014  gennaio 16 Giovedì calendario

I SEGNI DEL MONDO SCRIVONO LE STORIE – [OGNI MAPPA DEL TERRITORIO È SEMPRE UN’OPERAZIONE LETTERARIA]


PUR NON PARLANDO DI MAPPAMONDI, ALFRED KORZYBSKI DICEVA: «la mappa non è il territorio». Molto di più, verrebbe da aggiungere.
Chi ama le cartine conosce il fascino del mondo colto in un solo sguardo, quella contrastante sensazione di onnipotenza e auto-ridimensionamento che arriva a ogni visione. E non può non aver notato che La storia del mondo in dodici mappe (Feltrinelli) dello studioso inglese Jerry Brotton, arriva insieme ad altri libri che nascono da prospettive non dissimili. A testimonianza di come, in faccia a Google Earth, il far cartine sia ancora un atto potente ed evocativo.
Howland, Socorro, Deception, Solitudine, Rapa Iti... sono le isole di Judith Shalansky raccolte in un libro che è un atlante (Atlante delle isole remote, Bompiani) ma anche un nuovo genere d’inventario poetico, o di raccolta di racconti. Racconti di isole irraggiungibili – vere o inventate, dove l’autrice non è mai stata, né mai andrà –; isole utopiche, alcune dove si arriva solo naufragando; isole corredate di cartine meticolose, a dire come il mettere la terra in un reticolo di precise coordinate, sia in fondo un atto letterario e assolutamente umano.
Ne I sette messaggeri di Dino Ruzzati un uomo parte per esplorare l’immenso regno del padre. Ma tanto più si allontana, tanto più tempo ci mettono a raggiungerlo i messaggeri con i dispacci della corte. L’imperativo del viaggio però è ineludibile e l’uomo procede anche quando più nessuno riesce a raggiungerlo e la speranza di arrivare ai confini del regno si fa sempre più dubbia. La dismisura è l’inconcepibile, la follia. Il protagonista di Buzzati d’altronde non aveva nessuna mappa del regno... Capovolgendo la questione, ogni mappa risponde al desiderio atavico di mettere ordine allo spazio smisurato che ci circonda e di concepirci in relazione a quello spazio. Non a caso, da quando Google ha messo a disposizione le immagini satellitari della terra, la prima cosa che fanno gli utenti è quella di visualizzare la propria casa: in fondo, cercando una risposta visiva a un quesito esistenziale: «Dove sono?» Domanda che ci si pone sin da piccoli (senza porsela) e che sta alla base dello sviluppo cognitivo. Non sorprende, dunque, che un altro libro di gusto cartografico uscito in questi mesi sia per bambini e abbia avuto un grande successo: Mappe (Electa Kids) di Aleksandra e Daniel Mizielinski, con le sue cartine piene d’informazioni illustrate su ogni continente, si è infatti aggiudicato il premio Andersen 2013.
Jerry Brotton nel suo interessante libro scientifico ci mostra come ogni cartina nasca sì sempre da un’esigenza conoscitiva, ma sia anche e sempre un racconto particolare, una visione prospettica specifica del mondo. Dunque qualcosa di simile a un’operazione letteraria.
Il cartografo di ogni tempo parte da scelte arbitrarie: per esempio, cosa mettere all’apice della sua visione (il nord, il sud, l’est, ma mai l’ovest sinonimo di morte); e nel suo atto immaginativo grandioso sa – come sapeva Borges – che la mappa 1:1 non serve a niente, ma che ogni mappa consente a chi la fa, e a chi la guarda, di fantasticare su luoghi dove non si andrà mai ed è sempre e comunque una rappresentazione, non una trasposizione obiettiva. D’altronde Abraham Ortelius, nel 1570 aveva titolato il suo atlante Theatrum Orbis Terrarum, Teatro del mondo.
Brotton ci porta dalla visione tolemaica della terra a quella di Al-Idrisi, studioso alla corte di Ruggero II, che fedele al sincretismo normanno, nelle sue mappe faceva confluire tradizione cristiana, musulmana, ebraica e anche il sentito dire: i resoconti dei viaggiatori su luoghi lontani e ostili. La mappa medievale, poi, dalla forma bizzarra e dalla superficie ondulata, con un aspetto epidermico, vivo, è la mappamundi di Hereford: l’Inghilterra sembra una salsiccia e l’Europa è a malapena riconoscibile, ma compaiono esseri mostruosi, spuntati fuori dal libro dell’Apocalisse, e scene del Vecchio Testamento sparse per tutta l’Asia. La mappa Kangnido, la mitica carta coreana del XV secolo, invece, mette al centro del mondo la Cina (tanto che a guardarla ora sembra una profezia geopolitica). Nel primo mappamondo a stampa, quello di Waldseemüller (1507), poi, le terre emerse assomigliano a pane sbriciolato nel mare, e quella che al margine destro parrebbe la crosta di una michetta, altro non è che l’America, per la prima volta attestata con il suo nome e non più con «Terra Incognita». Una specie di certificato di nascita del nuovo continente, che la Library of Congress ha pagato 10 milioni di dollari, affrontando mille traversie per averla e dimostrando quale visione abbiano del proprio paese gli americani.
I mappamondi usati dagli esploratori spagnoli e portoghesi per spartirsi il dominio del mondo, poi, sono quelli che Martino di Boemia chiamava i «mela terra» (Erdapfel) e imponevano un «pensare sferico», dunque una prospettiva nuova, impensata. Ed è grazie a quella prospettiva che Magellano, semplicemente continuando a navigare verso ovest e trovando lo stretto che ora porta il suo nome, raggiunse quell’est (le Molucche) che fino ad allora era stato precluso al dominio spagnolo. C’è poi la visione armonica di Mercatore (1569) e quella seicentesca dell’olandese Joan Blaeu, dove ogni popolo è definito secondo potenzialità finanziarie e interessi commerciali: tanto che a un occhio di marketing parrebbe la descrizione ante litteram dei vari target globali. La Carte de Cassini (XVIII sec) invece è la prima carta geografica di una nazione: una visone dettagliata della Francia con un nuovo linguaggio di simboli valido per ogni regione che infuse un potente messaggio di unità, anche linguistica. Da quel momento chiunque avesse guardato la carta cercando la propria città si sarebbe concepito come cittadino francese. Ci sono poi le carte tematiche di Mackinder che raccontano il mondo da prospettive «più strette». E poi, la visione «democratica» di Peters che si pone il problema di uno sguardo etico. Come se esistesse un’immagine oggettiva del mondo e una carta non fosse solo una visione parziale e selettiva (sì, anche quelle di Google Earth, almeno nella selezione delle informazioni commerciali date per ogni luogo visualizzato).
Una cosa è certa: l’immagine della Terra è in continua evoluzione.
Come in evoluzione da sempre è anche la forma della città eterna. Piante di Roma: dal Rinascimento ai Catasti (Artemide) di Mario Bevilacqua e Marcello Fagiolo, è un altro volume uscito in questi mesi che dice del rinnovato interesse cartografico. Illustra come la forma urbis sia rappresentata – raccontata visivamente – nei secoli e comprende, oltre a quelle rigorose, anche le restituzioni immaginarie di Piranesi e Ligorio.
Le prospettive sul mondo, i simboli che lo descrivono, il non detto e revocato, l’influenza che una visione della realtà ha o meno sul nostro sguardo. Le mappe di Brotton, ma non solo quelle, hanno un fascino romanzesco: sembrano sempre di più oggetti capaci di far fuggire dal quotidiano. Oggetti letterari. Per chiudere il cerchio, non è un caso che Strabone, mentre rifletteva sulla descrizione dello scudo di Achille come mappa cosmologica, abbia definito Omero primo grande geografo.