Pietro Piovani, Il Messaggero 16/1/2014, 16 gennaio 2014
L’ETERNA LITE TRA I ROMANI E LA MONNEZZA
In italiano si dice immondizia o immondezza, a Roma monnezza. Molti però la chiamano “mondezza”, usando quella specie di dialetto ripulito, quel “parlà ciovile” che già il poeta Gioachino Belli all’inizio dell’Ottocento derideva in un suo sonetto. Sapendo che in italiano si dovrebbe dire “mondo” e non “monno”, il romano che vuole mostrarsi istruito corregge la doppia n anche là dove non dovrebbe. Il risultato finale è una parola che dice il contrario di ciò che vorrebbe, perché “mondezza” in italiano significa pulizia.
La convivenza tra Roma e i suoi rifiuti è difficile, come si sa, non solo dal punto di vista linguistico, e non da oggi ma da secoli. A Testaccio i romani antichi ci hanno lasciato in eredità una discarica talmente grande da assumere le dimensioni di una montagna. E basta rileggersi uno dei tanti avvisi scolpiti sul marmo e incastonati nei muri dei vecchi palazzi (“Monsignor Presidente delle strade proibisce a qualunque persona di farvi il mondezzaro in questo sito”) per capire che le Malagrotte del Settecento erano decine, e a eliminarle non bastavano le multe né le pene corporali né le minacce di scomunica. Va detto che già allora si faceva la raccolta differenziata, come ci testimonia di nuovo il Belli. In un sonetto il poeta fa parlare uno stracciarolo, antesignano degli operatori ecologici Ama, che spiega con grande enfasi quanto è difficile “er mett’a parte co un’occhiata li vetri e li ferracci, a nun confonne mai carte co stracci, e a divide li stracci da le carte”. Perché anche nell’Ottocento la separazione dei rifiuti veniva vissuta dai romani come un’impresa titanica.