Mario Deaglio, La Stampa 16/1/2014, 16 gennaio 2014
LA PREMESSA PER RIPARTIRE
Il presidente del Consiglio greco, Antonis Samaras, deve aver avuto un moto di soddisfazione ieri mattina, una soddisfazione forse un po’ maligna ma sicuramente giustificata. Samaras ha inaugurato il «semestre greco» di presidenza dell’Unione Europea - cui seguirà un «semestre italiano», al quale l’Italia non sembra affatto prepararsi - annunciando, a una seduta plenaria del Parlamento di Strasburgo, il raggiungimento, dopo due anni di paralisi, di un accordo politico tra Parlamento e Consiglio per una regolazione più severa dei mercati finanziari.
Precisamente sui mercati finanziari negli ultimi dieci anni, il debito del suo Paese ha potuto tranquillamente essere gonfiato senza alcun controllo, naturalmente con colpe anche greche; i titoli di questo debito hanno potuto essere inseriti in prodotti finanziari «derivati» di tipo non trasparente; questi titoli sono stati scambiati in mercati non regolamentati, i cosiddetti «stagni scuri» della finanza globale.
Tutto ciò ha dato origine a una variante europea della grande crisi economico-finanziaria mondiale, sospinto l’euro sull’orlo di un burrone dal quale si è allontanato solo al prezzo di una dura frenata produttiva, fatto cadere l’economia greca in quel burrone riportandola all’indietro forse di un’intera generazione e procurato guadagni imprecisati ma comunque enormi a una ristretta élite di finanzieri. Un presidente greco ha ieri chiuso questa parentesi: è un po’ come se la storia chiedesse scusa a quello che è forse il primo (e speriamo resti l’unico) Paese al mondo a esser stato rovinato esclusivamente dalla finanza, almeno in tempi moderni. E come se l’Europa cercasse di rimediare a una colpevole inerzia durata almeno cinque anni.
L’accordo dovrebbe – il condizionale è d’obbligo, fino a quando dal livello politico non si passerà a un testo fitto e minuto, preparato dai tecnici – comprendere tre punti fondamentali: il controllo del tipo di operazioni, il controllo del tipo di prodotti, il controllo di chi opera nei mercati. Questo complesso di limiti suonerà mortificante ai sostenitori a oltranza del mercato come supremo regolatore della vita economica e sociale ma appena adeguato a chi considera i guasti provocati da una libertà priva di regole.
In base al primo punto, sarà vietato operare su mercati non controllati e svolgere quello che viene indicato come «commercio algoritmico di alta frequenza», ossia operazioni in rapidissima serie, determinate automaticamente da un computer appositamente programmato. Il computer, con i suoi programmi, è ancora ammesso ma dovrà esser dotato di un meccanismo che interrompe le operazioni se il mercato diventa troppo volatile e i programmi dovranno essere in precedenza verificati dalle autorità di supervisione e da queste specificamente autorizzati.
Su questi mercati resi più mansueti, ed è questo il secondo punto, ci saranno controlli sulla «tossicità» dei titoli dei quali si potrà anche imporre il ritiro, oppure la fornitura di informazioni dettagliate agli investitori. Questi, spesso, come mostrano recenti sentenze americane sulle operazioni della prima fase della crisi finanziaria, non sono in grado di sapere bene che cosa stanno comprando. Ci saranno infine tutele per gli investitori, ossia per i cittadini, con un raffinamento di procedure complesse e scarsamente efficaci già in vigore oggi nonché limiti alla posizione netta di ciascun operatore sui mercati delle materie prime. In quest’ultimo caso si tratta di un freno a movimenti puramente speculativi che, come è successo molte volte negli ultimi anni, si ripercuotono fortemente sui movimenti dei prezzi del petrolio e dei cereali creando difficoltà all’economia reale.
In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, il vero scontro, o, se si preferisce, la vera dialettica è tra «mercati» e «democrazie»: i mercati hanno imposto, in maniera tutto sommato giustificata, alle democrazie, di pagare regolarmente alla scadenza i debiti contratti dagli Stati. Le democrazie cercano ora di imporre ai mercati di operare alla luce del sole e non, appunto, in «stagni scuri» che possono trasformarsi in paludi. Si tratta di uno scontro durissimo che, per la prima volta, vede la finanza sulla difensiva: il numero di multe inflitte alle grandi banche internazionali nel corso del 2013 è probabilmente a livello record e raggiunge in ogni caso le decine di miliardi di euro.
Si aggiungano inoltre i limiti crescenti imposti alle banche nell’impiego dei fondi messi a loro disposizione dai depositanti, un impiego che non deve superare livelli predeterminati di rischio, il che spiega la riluttanza o l’indisponibilità delle banche in questo periodo a prestare a clienti «rischiosi». Attorno a questi fondi deve essere eretto uno «steccato di protezione», come dice la riforma bancaria inglese appena approvata e che entrerà in vigore in aprile; nella stessa direzione si muove la riforma americana, anch’essa sulla linea di partenza.
Entrambe sembrano andare verso una separazione simile a quella introdotta negli Anni Trenta, ma rimasta in vigore fino agli Anni Novanta, tra l’attività bancaria «normale», finanziata da depositi «normali», e l’attività bancaria di lungo termine, finanziata da appositi titoli e depositi. Le leggi bancarie degli Anni Trenta non furono sufficienti a far uscire il mondo dalla crisi di allora ma, grazie queste leggi, nel dopoguerra le banche furono in grado di finanziare i «miracoli economici». Non bisogna forzare i parallelismi in un mondo che è profondamente mutato ma si può ragionevolmente sperare che, a livello mondiale, il controllo accresciuto di mercati e banche sia una premessa per una ripresa sostenibile.