Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 16/1/2014, 16 gennaio 2014
OLMI: «LE TRINCEE PIENE DI POVERA GENTE SVELARONO UNA BUGIA CHE ANCORA RESISTE»
Non vuol proprio saperne, bestia di un mulo, di venire su coi cassoni in groppa per il sentiero in mezzo alla neve. «Oriooo! ‘ndemo ! Oriooo!».
Macché. Affonda gli zoccoli e sbanda e stronfia e disegna sbuffi col fiato caldo nell’aria ghiacciata finché di colpo parte, pianta lì il soldatino e schizza via sotto il naso della troupe. A ottantadue anni e passa, però, imbacuccato sotto un colbacco siberiano, Ermanno Olmi è più testardo dell’Orio. Vuole la scena col mulattiere canterino e anche il mulo degli alpini di Vittorio Veneto, perdio!, deve ben adeguarsi: «Non ci sono più i muli di una volta», ammicca. «Quelli salivano su coi cannoni. Questi ormai sono cocchi di mamma. Mollaccioni».
Fatto sta che l’inizio delle riprese, in val Formica, sulla strada che da Asiago sale verso Trento, di 15-18. L’Italia in guerra , il nuovo lavoro del grande regista, ha mostrato già quanto sarà ardua, l’impresa. È gelido l’inverno, lassù sui bordi elevati dell’Altopiano. Basta una folata di nevischio in faccia e ti ricorda Emilio Lussu: «Il vento di tramontana scendeva freddo e accompagnava con sibili il suo passaggio nella vallata».
E meno male che oggi c’è il sole. Perché tutto il resto del film, nelle trincee ricostruite sui monti sconvolti dalla Battaglia degli Altipiani del 1916-17, mica in uno studio riscaldato di Cinecittà con la macchinetta del caffè dietro la garitta, sarà girato di notte. Dura per i giovani e giovanissimi attori (così era l’Italia allora: pochi vecchi e tanti ragazzini), dura per il regista esecutivo Maurizio Zaccaro e i collaboratori, durissima per un signore un po’ malandato che, per quanto sia sorretto dal filo d’acciaio, va per gli ottantatré. Loredana, la moglie, sospira incerta tra rassegnazione e orgoglio. Così è fatto, l’Ermanno. D’inverno! Di notte! Su e giù in groppa al gatto delle nevi!
Lui spiega che non gli passava per la testa di fare altri film. Così avventurosi, poi! «Solo che, quando la Rai me l’ha chiesto, mi si è aperto in testa uno sportellino e si è affacciato mio padre. Lui ci credette, nella patria. Partì a 18 anni e la visse tutta, la guerra. E ricordando lui ho capito che non è retorica ricordare certi grandi eventi che sono stati ingabbiati nella retorica ma che erano carne e sangue di uomini».
«Per prima cosa ho messo in fila, con quelli di papà, tutti i ricordi che avevo del vecchio Toni Lunardi, detto “Toni matto”, il protagonista de I recuperanti . Aveva fatto il pastore, sapeva trovare i sentieri di notte e per questo l’avevano coinvolto nella guerra. Sapeva sì e no leggere e scrivere ma aveva una capacità omerica di narrare storie straordinarie… Autentiche epopee».
Tema? «Il film parla di un’ora e mezza vissuta in una trincea del fronte orientale in una notte di plenilunio dell’autunno del 1917. Niente assalti né mattanze né infelici mandati a morire con le “corazze Farina”. Cosa vuoi raccontare, dopo Uomini contro o Orizzonti di gloria? Gli stessi Emilio Lussu o Carlo Emilio Gadda li ho lasciati fuori. Perché sì, certo, vissero le cose. Ma nel momento di scrivere prevaleva il letterato. Non gli tolgo niente, sia chiaro: ma loro sono un’altra cosa rispetto a “Toni matto”. Dice Tolstoj: “Sfido qualsiasi scrittore a scrivere come sanno scrivere i bambini”. Gesù Cristo cosa dice? “Se non vi farete bambini non entrerete nel regno dei cieli ”. Cioè: se non tornerete innocenti… Ecco, volevo raccontare la guerra vista dagli innocenti: Toni, i miei ricordi di bambino, qualche altra testimonianza personale…».
Lo sbocco finale di una Grande Bugia: questo fu la guerra, per Olmi. E vide come vittime i poveri, mandati a scannarsi l’un l’altro: «Giovanni XXIII diceva che solo i poveri capiscono i poveri. È vero. C’erano trincee, su a Monte Zebio, separate da otto metri. Otto metri! Da qua a là. Si parlavano: “Come siete messi a legna?” E stabilivano delle tregue perché gli uni e gli altri potessero andare a far fagaro , cioè a rifornirsi, per alleviare le pene della trincea».
E dentro la stessa trincea, «c’erano due guerre. Degli ufficiali e dei soldatini. Dei borghesi e dei poveri». Anche il freddo era diverso: i primi avevano i cappotti foderati di pelliccia, i secondi gli scarponi di cartone… «Sì, anche il rancio era diverso. Ma poi, in un caposaldo avanzato come il nostro, eri così isolato da condividere quel che c’era. Infatti nel film questi giovani ufficiali sono costretti a vivere la guerra dei soldati. E cominciano a ragionare…».
Anche oggi, accusa il grande regista, siamo dentro una Grande Bugia. Quella del denaro. «Ci sono momenti in cui la storia dice: avete sbagliato tutto. Per ripartire occorre azzerare». Teme altre «guerre purificatrici»? «Sono ottimista per disperazione. È cambiata solo la Grande Bugia. La Prima Guerra Mondiale vedeva gli uomini uccidersi in nome della bugia nazionalista: la difesa della patria. La seconda in nome della bugia ideologica: fascismo, nazismo, superiorità razziale e religiosa… Cos’è oggi la guerra? Non ci sono più quelle cose lì. È una guerra più primitiva». Per l’acqua, il cibo, il pattume: questo è mio ma te lo devi tenere tu, muori di cancro tu e non io… «Ecco. Dalla patria all’ideologia, dall’ideologia al benessere centrato sul consumo. Una bugia talmente grossa che ti chiedi come abbiano fatto a cascarci tutti. Sarà una guerra tutti contro tutti. E non ci sarà un comandante, stavolta, a dire: fermi tutti, trattiamo. Ecco, spero che il mio film aiuti a capire…».
Che cosa resta, della Grande Guerra? «Credo che all’inizio quei soldatini vissero davvero un’epopea. Ci credevano sul serio. La seconda no, fu subito chiaro che non era una guerra mossa da un sentimento. Ma nella prima sì, ci credevano...». L’epopea della Vittoria! «Il punto è che da una guerra, vinci o perdi, esci sempre sconfitto. Il giorno dopo (il giorno dopo!) c’era già il fascismo. E Hitler».
Un incubo. «Il nostro film è un’allucinazione. Cos’è l’allucinazione? Una realtà che non esiste, nel senso dell’oggettività. Ma una realtà che si trasforma in quanto tu cambi. Diventi diverso. Mi aiuta ciò che accadde in quei mesi. Un’epidemia di influenza con botte di febbre altissima che dava allucinazioni. Da piccolo ebbi anch’io un febbrone da cavallo. Vedevo bestie orrende intorno al letto. Chiamavo mia mamma: “Manda via quelle bestie! Manda via quelle bestie!”. La guerra cambia completamente il tuo rapporto con la realtà. Paura della fame. Paura del freddo. Paura che venga qualcuno a ucciderti. Tutto viene vissuto come una esasperazione della realtà».
E qual è il raccordo con le paure di oggi? «Vorrei averle oggi, quelle allucinazioni. Perché quelle che verranno… E non mi dica che sono catastrofista». Parole dure, per chi crede in Dio. «Momento, io non credo in Dio. A quel Dio lì non ci credo tanto. Dio non c’è. Dio è l’esistente. È il cosmo intero. Dio l’abbiamo fatto noi per scaricargli addosso le nostre debolezze, le nostre incapacità. L’hanno usato come il settebello i bari».
Ma non era, il vecchio Olmi, il simbolo stesso d’una certa fede? Il regista cristiano? «Se è per questo, scrivono anche che sono nato a Treviglio, invece che a Bergamo. Pensano a Olmi come al bambino che andava all’oratorio: chi è Dio? “Dio è l’Essere perfettissimo…”. Ma ce ne vuole, per essere cristiano. Diciamo che sono un aspirante cristiano… Essere cristiano vuol dire non derogare dai comportamenti che Cristo ci ha lasciato. E anch’io, invece… Come faccio a dirmi cristiano?».