Barbara Spinelli, la Repubblica 15/1/2014, 15 gennaio 2014
LA LEZIONE AMERICANA SULLA CRISI DELL’AUTO
QUANDO le crisi sono devastanti non si può fare a meno dello Stato, perché solo quest’ultimo è in grado di metter fine alla devastazione, solo il pubblico sa scommettere sul futuro senza pretendere l’immediato profitto cercato da cerchie sempre più ristrette di privati. Parlando con Ezio Mauro, nell’intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l’ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo — la fusione tra Fiat e Chrysler — e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato si sbriciolano.
Senza quasi accorgersene, l’amministratore delegato ridipinge anche l’immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell’imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest’illusione, se c’è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; la Fabbrica Italia su cui giurò nell’estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: «La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con la task force del Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui». L’idea era di far rinascere Fiat «in forma completamente diversa », e solo lo Stato federale Usa poteva fronteggiare — mettendoci la faccia, e i soldi — una crisi depressiva che Marchionne definisce «spaventosa » («I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (...) non so se mi spiego»). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste le vecchie logiche.
L’amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal «sistema digestivo delle banche che si era bloccato».
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del ’29. Il dogma del laissez-faire, dell’economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s’è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha «creduto» al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché. Dice Marchionne che gli americani, a differenza degli europei e degli italiani, hanno una propensione, «quasi naturale », a incoraggiare i cambiamenti, la voglia di ripartire: ad «aprirsi al mondo e non chiudersi in casa, soprattutto quando intorno c’è tempesta ».
Proprio la sua narrazione tuttavia cela una verità più profonda: questa propensione non è affatto naturale. Si risveglia quando la forza pubblica programma le mutazioni, dedica loro risorse. Quel che Baudelaire scrive a proposito del bello e della ragione vale anche per l’economia: tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale sono mortifere; tutto quel che è nobile e bello nasce dalla ragione e dal calcolo, dalla filosofia, dalle religioni e dall’artificio. Dal maquillage: da trucchi e belletti.
Così avvenne dopo la Grande Depressione, quando Roosevelt lanciò il suo New Deal, il patto contro la paura e la povertà. Il vecchio continente non fu da meno, e in fondo è ingiusto dire che noi europei, per cultura e storia, «siamo condizionati dal passato, e l’idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa ». Fu cosa nuova pensare, nel mezzo dell’ultima guerra, due cose simultaneamente: l’unità economica e politica dell’Europa, e lo scudo contro povertà e depressioni che è il Welfare. William Beveridge, che del Welfare fu l’artefice, si batté per ambedue gli obiettivi.
L’Europa non è geneticamente meno innovativa degli Stati Uniti. Se ha perso questa capacità, se come un Politburo s’aggrappa alla linea dell’austerità quasi fosse una linea di partito, se lo Stato italiano è un motore che ingoia le ricette recessive senza muoversi, non vuol dire che ereditariamente siamo inadatti. Significa che non possediamo l’ambizione politica — dunque la corporatura geografica — su cui può contare Obama, che non a caso si richiama più volte a Roosevelt. Non dimentichiamo che l’assistenza sanitaria universale è invenzione europea. Che Obama non sa come imporla a una destra enormemente sospettosa verso lo Stato. Chiudere il passato è difficile per lui come per noi. Anche lì capita che «porti un’idea nuova e trovi subito dieci obiezioni», come Marchionne dice dell’Italia.
Non so cosa pensi Marchionne della crisi nata nel 2007, ma qui importa il suo racconto e il racconto conferma che all’origine del male c’è l’assoggettamento dei poteri pubblici alle forze spontanee del mercato, al «puro uomo naturale». Un assoggettamento che continua a dispetto dei traumi subiti, come se il rimedio all’intossicazione fosse il veleno stesso che l’ha causata.
Questo perché l’economia del laissez-faire resta un’ideologia, proprio come ai tempi in cui John Maynard Keynes ne denunciò le insidie, le menzogne. Il suo saggio del 1926 sulla «Fine del laissez faire» andrebbe riletto ogni giorno dai Politburo europei e nazionali. Il liberismo del lasciar- fare è a suo parere un idolo appannato, un mostro letargico: sopravvive grazie all’inclinazione — perversa, comoda — a semplificare le complessità, a occultare le smentite. È una teoria darwinista, che seleziona il più forte e distrugge tutto quel che sta intorno: società, persone, Stati, democrazia. Chi vince, scrive Keynes, sono solo le giraffe col loro collo lunghissimo, che riescono a mangiare le ultime foglie rimaste in cima all’albero: gli animali col collo corto muoiono di fame. Il mercato lasciato a se stesso è quell’albero. Produce misantropia diffusa e diseguaglianze esiziali.
L’intervista di Marchionne è significativa perché avvalora la triste parabola delle giraffe: la recessione è alle spalle, ci dicono, la cima dell’albero è di nuovo piena di foglie, ma il prezzo è la sopravvivenza del più adatto. Anche la disuguaglianza è spaventosa, e spiega certe convergenze fra ideologi delusi del laissez-faire e i loro contestatori. Non è raro, ad esempio che il liberista Brunetta si dica d’accordo con Landini della Fiom, ancor ieri un eretico.
Non è detto che la svolta sia vicina. Non sappiamo se Marchionne ambisca sul serio a «dare forma e significato alla società del futuro». Se abbia ricordo del Piano Marshall da lui invocato nel giugno 2013: che creò coesione nazionale e stabilità, ma grazie a immensi investimenti pubblici in Europa. Se il «sogno di cooperazione industriale a livello mondiale» favorirà davvero la reintegrazione («sempre che il mercato non crolli un’altra volta») di tutti i cassaintegrati Fiat.
Quel che resta, leggendo l’intervista, è l’amarezza per l’incapacità europea e italiana di attivarsi come Washington. L’Unione è divenuta una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue profezie e ideologie, scrive l’economista greco Yanis Varoufakis. Logica vorrebbe che fosse lei, per prima, a scommettere sulla «società del futuro ». Dovrebbe metterci la faccia e i soldi, come Obama. Dovrebbe divenire una Federazione. Con la storia che ha potrebbe perfino riuscire meglio di Obama, prigioniero spesso delle destre antistataliste.