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 2014  gennaio 15 Mercoledì calendario

CAMERE: UNO, MASSIMO DUE MANDATI


[Michele Ainis]

È un costituzionalista apprezzatissimo, perciò quando lo chiamiamo, all’indomani delle motivazioni della Consulta sulla bocciatura del Porcellum, Michele Ainis riceve una richiesta di intervista dietro l’altra. Ma questo messinese classe 1955, ordinario alla Terza università di Roma, non lesina certo giudizi politici nei suoi editoriali sul Corriere e su L’Espresso, o nei suoi saggi. Ed è del quadro politico che gli chiediamo di parlare, sapendo che a ItaliaOggi non dirà di no anche per vincolo affettivo: i suoi primi editoriali li scrisse da queste colonne, alla fine degli anni’80.
Domanda. Professore, la riforma elettorale è calendarizzata in Parlamento, la Consulta ha dato le motivazioni e si parla anche molto di elezioni. Dalle colonne di ItaliaOggi, lanciata da Tino Oldani, è partita un’idea che anche altri anno ripreso: mandare Matteo Renzi a Palazzo Chigi senza aspettare nuove elezioni. Giorgio Napolitano ne avrebbe il potere. Che gliene pare?
Risposta. Tecnicamente è possibile, politicamente mi pare improbabile.
D. Partiamo dalla tecnica, allora...
R. Si tratterebbe di una crisi di governo e di un premier che si dimettesse o venisse sfiduciato. Il capo dello Stato dovrebbe aprire consultazioni, individuando una nuova maggioranza, dovrebbe dare il mandato. Tecnicamente non si potrebbero sciogliere le camere, quando c’è una maggioranza in grado di esprimere un Esecutivo. Lo fece, nel 1994, Oscar Luigi Scalfaro ma c’era di mezzo Tangentopoli e c’era stato il referendum di Mario Segni. Insomma era un altro contesto.
D. E invece sul piano politico?
R. Sul piano politico c’è il precedente di Massimo D’Alema nel 1998: si cambia cavallo in corsa, con la stessa maggioranza. Ma mi pare che in più di un’intervista, D’Alema, che pure in quell’occasione divenne presidente del consiglio, abbia sostenuto che fu un errore. Tanto che di quell’esperienza, gli rimase un’ombra, una fotografia, forse sbagliata, di manovratore di Palazzo. Non credo che Renzi vorrà fare un passo del genere.
D. Per quali motivi, secondo lei?
R. Perché con quella che, a torto o ragione, sembrerebbe una manovra di Palazzo, brucerebbe parte della fiducia che ha saputo conquistare...
D. Mancherebbe il mandato chiaro degli elettori. Anche se in questo caso potrebbe essere mediato da un voto europeo, a maggio, che desse al Pd una vittoria netta. La mancanza di un mandato elettorale netto costituisce un problema: quando B. vinse nel ’94, l’aver avuto una maggioranza a blocchi, con alleanze distinte con Lega ed Msi, non l’aiutò...
R. È vero. Ma anche quando poi la ebbe e ampia, seppure col Porcellum, nel 2008, i vagoni cominciarono a staccarsi dal treno. È che questo Paese soffre di una malattia che una volta, a sinistra, chiamavano frazionismo e che poi ha contagiato un po’ tutti, impedendo che il sistema diventasse davvero bipolare.
D. Renzi, uomo di dichiarata vocazione maggioritaria, rischia di scontare anche lui quella che è stata definita anche la malattia dei cespugli? E come se ne esce?
R. Ci sono pulsioni contraddittorie: da un lato gli Italiani desiderebbero sapere chi governa un minuto dopo la chiusura delle urne, come dice spesso lo stesso segretario Pd. E vorrebbero governi col fiato lungo. D’altra part, però gli stessi Italiani vogliono riconosciuta la propria identità parziale, la vogliono rispecchiata negli assetti politici.
D. Pulsioni inconciliabili?
R. Su questa problematica si gioca la sentenza della Corte costituzionale. Occorre bilanciare rappresentatività e governabilità. Allo stato attuale un sistema a doppio turno eventuale, potrebbe farlo.
D. L’Italia si trova a sperare nuovamente nelle regole, professore. Un po’ come accadde nella stagione referendaria di Segni, con la preferenza unica e del maggioritario, che abbiamo citato. Non è che annettiamo troppo valore alle regole del gioco?
R. Le regole viaggiano sulle gambe degli uomini e non c’è regola che possa raddrizzare le gambe di uno storpio. Quando Hitler salì al potere, era in vigore la costituzione di Weimar, quella del 1919, un modello per tanti avanzatissimo. E il nazismo non l’ha mai neppure abrogata. Però è anche vero che le regole possono svolgere una funzione pedagogica a effetto vincolante.
D. Quali, professore?
R. Quelle, per esempio, che pongono un limite ai mandati parlamentari, della cui utilità sono personalmente convinto, perché ritengo che la politica debba essere una parentesi nell’esistenza di una persona. Quando Renzi ha cominciato, quando si è affacciato alla scena con lo slogan rottamazione, a quello si riferiva.
D. Lei sarebbe favorevole?
R. Glielo dissi pubblicamente quando, tempo fa, ci incontrammo a Ballarò. Anzi, proponevo due mandati, al massimo...
D. E Renzi che le rispose?
R. Che lui proponeva un limite di tre e nel suo partito c’era chi lo contestava. Ora, che sulla base delle primarie è stato legittimato, non mi pare che ne abbia più parlato. Eppure questa regola saprebbe riconciliare rappresentanti e rappresentati, con quel valore pedagogico che aiuta un rinnovamento. È vero che non ha riscontri nelle Costituzioni attuali, ma si tratta di qualcosa che esisteva nella Grecia di 25 secoli fa: una sola volta nella vita e per un anno.
D. Pessimista su Renzi?
R. No, forse si tratta solo di una delle prudenze che accompagnano il suo nuovo ruolo da segretario. È forse un po’ troppo presto per valutare.
D. Anche sulla giustizia aveva stupito la sua posizione dura sull’amnistia, ribaltata quasi alla Leopolda, quando invece aveva preso un solenne impegno alla riforma.
R. Credo che gli Italiani non vogliano l’amnistia. Viceversa il tema della responsabilità nella giustizia dovrà, prima o poi, essere posto. È un mondo che gira alla rovescia: ciò che vale per i politici e per i chirurghi, non vale per i giudici. Una cosa strampalata, una pagina non scritta.
D. Hanno pesato le vicende di B...
R. Certo, sentendo il premier in carica che attaccava un altro potere dello Stato, molti fecero una difesa della magistratura tout court . E invece la responsabilità dei giudici è una cosa di cui dovremmo parlare. Perché c’è un principio che vale per la giustizia come per l’economia: dove c’è potere, deve esserci responsabilità.
D. E c’è, professore, un tema di cui, malgrado l’urgenza, non c’è traccia nell’agenda politica?
R. Non si è percepito il fatto che delle riforme ci sia stato solo l’annuncio e che la miccia si sia già consumata. Della giustizia, sfogliando, non si trovano cure radicali. Di una legge che regoli i conflitti di interessi, non si sente più parlare. Non è più tempo di manutenzioni, ci vogliono soluzioni strutturali. Credo che Renzi riuscirà a incarnare questa necessità.
D. Anche i Forconi parevano farlo, anche se in maniera arrabbiata e confusa. Ma sono spariti.
R. Vero ma basta niente per farli ricomparire. Girando le città, sentendo parlare la gente, lo si capisce benissimo.