Sergio Saviane, Rolling Stone gennaio/febbraio 2014, 15 gennaio 2014
FESTIVAL DI SANREMO 1967 LA NOTTE IN CUI SI SPARÒ LUIGI TENCO
«È un’ora, più di un’ora, dal momento in cui il povero Tenco s’è ammazzato, che sto pensando seriamente di lasciare questo lavoro... Mi chiedo se la colpa non sia soltanto nostra, di noi discografici, se accadono queste cose...».
Siamo all’hotel Savoia. Sono le tre e mezzo della notte dal giovedì al venerdì. Chi parla è Franco Crepax, il direttore artistico della più grande e ricca casa discografica italiana, la Cgd Sugar. Crepax è un uomo molto franco, tutt’altro che cinico. Non l’ho interrogato io, non gli ho chiesto niente. Mi s’è avvicinato di sua spontanea volontà. Nella hall dell’albergo più grande di Sanremo, una costruzione vecchio stile, un po’ cupa ma non triste, ci sono quasi tutti i cantanti, i dirigenti della Rai-Tv, qualche grosso funzionario dell’Ata (proprietaria del Casino e impresaria del festival); c’è Gianni Ravera, organizzatore artistico e scopritore di talenti; ci sono Ugo Zatterin, l’ex commentatore politico della televisione passato oggi al ramo canzonetta e direttore del Radiocorriere, ed Ezio Radaelli, l’inventore (e il responsabile) del Festival di Sanremo; il commissario di polizia Molinari e due agenti; tutti i giornalisti, decine di fotografi a operatori, i radiocronisti Lello Bersani e Sandro Ciotti, i dirigenti e i manager delle case discografiche (molti volti giovani, eppur così importanti); ci sono gli amici del cantautore suicida, Lucio Dalla disteso e ancora tremante su una poltrona (è stato il primo, con Dalida, a scoprire il corpo dell’amico nella sua camera), Piero Vivarelli, un ex regista convcrtito all’organizzazione Piper, Adriano Mazzoletti, e, in gran numero, anche gli amici occasionali, quelli che piangono, fanno gesti nervosi, guardano lontano con l’occhio smarrito. «Sono venuti a prendersi la loro parte di flash», dice Cravetto, il direttore artistico del settore canzoni e varietà della Rai-Tv. Giorgio Gaber, che è stato un tempo un caro amico di Tenco, è disteso in poltrona, accanto alla moglie e a Renata Mauro. Sono tutti ancora in smoking, le signore in abito lungo.
NON SI DA PACE FRANCO CREPAX
Mike Bongiorno, invece, colto dalla notizia in camera mentre stava coricandosi, ha fatto in tempo a cambiarsi: un paio di pantaloni di velluto nero, un maglione nero, la pipa, le scarpe nere. Donati, responsabile televisivo degli esterni, ha ancora il doppiopetto di grisaglia che indossava durante le riprese dietro il palcoscenico del teatro del Casino, senza cravatta. Ma ha fatto appena in tempo a togliersi le scarpe e a infilare le pantofole.
Franco Crepax, dopo lo spettacolo, aveva aspettato con il suo editore Piero Sugar i risultati, quindi era tornato in albergo. Per lui, che lavora da tanti anni alla Cgd, Sanremo non è una festa. Appena può, va a letto; mentre stava addormentandosi, è stato avvertito che Tenco si era ammazzato. Così si era messo un paio di pantaloni e un maglione ed era sceso con gli altri nella hall. Ma ora non si dava pace. Appoggiato a una colonna, continuava a torturarsi, come se la colpa fosse sua, quasi che Tenco dipendesse dalla Cgd invece cha dalla Rca. «Capisci», continuava, «l’anno scorso poteva succedere a me con Luciana Turina... Te la ricordi la Turina, quella grassa? Dopo l’eliminazione, abbiamo passato quasi tutta la notte a calmarla, c’era anche sua madre. Sono momenti brutti. Se non sei là pronto, quelli si ammazzano... E allora mi chiedo cosa sarebbe successo se si fosse ucciso Vittorio Inzaina, che abbiamo portato a Sanremo dalla Sardegna dove faceva il muratore, o la Turina, o la Caselli, se le fosse andata male... Adesso la Caselli la vedi così spavalda... Ma quando arrivano qui la prima volta è tutta un’altra cosa...».
Franco Crepax è stato il manager di tanti cantanti, ha avuto tra le mani, anni fa, anche Luigi Tenco. Oltre alla Turina, che tuttavia canta ancora ma già sulla via del tramonto, ha creato, dal nulla, Gigliola Cinquetti, Caterina Caselli, ma anche molti, molti altri cantanti che oggi il pubblico non ricorda nemmeno più. Però quella notte al Savoia era abbattuto. Non si dava pace. «Bisognerebbe finirla con questo lavoro», mormorava ogni tanto.
CINQUE ANNI DELLA MIA VITA
È difficile dire di chi è la colpa, quando uno decide di togliersi la vita. Dopo l’annuncio di Mike Bongiorno che le giurie sparse nelle varie città italiane avevano eliminato Ciao, amore, ciao. L’autore, che l’aveva appena cantata in coppia con Dalida, aveva accompagnato la sua partner, in una folle corsa nella Gt sport, al Nostromo, un ristorante sul mare, ed era tornato subito in albergo. C’erano tutti i suoi amici, in quel gruppo, e c’erano il manager della Rca Ettore Zeppegno con la moglie Adriana, tutta l’équipe della grande casa tra cui Mimma Gaspari, i quali non si sanno ancora perdonare di averlo lasciato tornare solo in albergo, dopo averlo visto sconvolto dalla notizia dell’eliminazione. Ma questo non significa nulla, perché Tenco, se era deciso a compiere un atto estremo, avrebbe trovato lo stesso il momento di togliersi quella vita. Egli aveva premeditato quel gesto. Due funzionari della Rca sapevano che Tenco aveva sempre una pistola con sé. Quando Dalida, tornando al Savoia dal ristorante, aveva voluto andare in camera del suo partner per vedere se si fosse calmato e per salutarlo perché sarebbe partita in nottata, e l’aveva trovato sul pavimento in mezzo al sangue, dopo aver tentato inutilmente di alzarlo, aveva gridato: «La lettera, la lettera... Assassini, assassini!». Il cantautore aveva organizzato la sua morte alla perfezione. E chissà da quanto tempo ci pensava. C’era scritto nella lettera: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao, Luigi”. Ma il suo è il gesto inconsulto di un giovane disperato che decide di farla finita con la vita per una crisi di nervi o quello di un giovane, un po’ romantico (un poeta, “il Pavese della canzone”, è stato definito) che s’immola per protestare contro la società, il pubblico, altri cantanti, l’industria discografica, gli affari loschi che si svolgono dietro le quinte del Casino di Sanremo?
Comunque fossero andate le cose, quella notte nella hall del Savoia non c’era uno che non giurasse sulla sospensione del festival. Invece, alle dieci del mattino di venerdì scorso, dopo poche ore, senza nessuna parola di commiato per il nuovo martire, nel teatro del Casino, cantanti, orchestrali, organizzatori, discografici avevano ripreso regolarmente le prove. Il piano studiato dagli impresari del festival di lasciare che tutti andassero in teatro, e rimanere in attesa nella speranza che, senz’accorgersi, i candidati si preparassero a cantare, aveva funzionato alla perfezione. La luce del giorno aveva compiuto il miracolo. Soltanto Caterina Caselli (ripresa un po’ rudemente da Ravera, che aveva esortato tutti a «non lasciarsi prendere dal panico») aveva rifiutato di cantare in omaggio al cantautore; e Claudio Villa, che non conosceva nemmeno “questo Tenco”, prima di fare la sua prova, aveva chiesto alle persone sedute in sala di scusarlo se avesse «cantato peggio del solito». S’era detto anche, durante la notte, che probabilmente la Rca avrebbe ritirato i suoi cantanti; che per solidarietà “e per rispetto del morto”, gli amici stessi di Tenco, Gaber e molti altri e le stesse case discografiche, si sarebbero ritirati; proprio per trasformare la protesta di un cantante in una protesta generale. All’infuori dell’intervento di Villa, era come se non fosse accaduto nulla.
“Faccio questo non perché sono stanco della vita”, aveva scritto Tenco, “tutt’altro: ma come atto di protesta contro... una commissione che selezione La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno”. Da qualche anno, l’elastico regolamento del Festival di Sanremo è stato ancora ritoccato. Ed è questo regolamento che ha creato tante discussioni e scandali. I primi anni erano i discografici che decidevano con i loro voti la sorte delle canzoni. Accadeva così che vinceva la casa più potente o quella che era riuscita a mandare in sala il maggior numero di amici.
Negli anni successivi, dopo tanti reclami dei giornali e dell’opinione pubblica, erano state istituite le giurie nelle varie città, gruppi di persone misteriose scelte da un misterioso notaio. Dall’anno scorso era stata aggiunta un’altra clausola, e cioè che le giurie avrebbero scelto soltanto sei canzoni e una settima sarebbe stata ripescata come consolazione all’ultimo momento tra gli scarti da una commissione di giornalisti. Quest’anno, dopo che i giornalisti hanno commesso nel gennaio del 1966 l’errore di eliminare II ragazzo della via Gluk di Celentano, era stato dato un altro colpo al regolamento. La giuria di consolazione non sarebbe stata più composta dai giornalisti, ma da una commissione composta da Luigi Bertolini, che è il presidente dell’Ata, da Gianni Ravera, creatura dell’Ata, e da tre dipendenti della Rai-Tv, Ugo Zatterin, Lello Bersani e Lino Procacci, regista della trasmissione. Con che criterio sia stata scelta questa commissione, tutti lo possono immaginare. La sorte di una canzone (con tutti i miliardi che ci sono dietro a un disco) non sarebbe stata più nelle mani delle giurie, ma in quelle più malleabili degli stessi organizzatori.
Giovedì sera, dopo il verdetto delle giurie, la commissione dei cinque si rinchiude in una saletta e comincia a discutere sulla canzone da salvare. Sono state eliminate quelle di Modugno, Bongusto, Pettenati, Fidenco, Tenco e altre. Ravera, Bertolini e Ugo Zatterin puntano subito sul La Rivoluzione, che è la più brutta, ha ottenuto il minor numero di voti, ma è anche della Cetra, la casa discografica di famiglia. Tentano di opporsi Lello Bersani e, più debolmente, Procacci. Ne nasce una discussione. Il tempo preme, perché in sala (e i 20 milioni di telespettatori alla radio) aspettano il verdetto. Dopo l’infuocata discussione, Bersani e Procacci, costretti a votare all’unanimità (erano in minoranza contro gli altri tre), cedono. Ma Bersani annuncia subito le sue dimissioni, accusando gli altri membri di avere commesso un’ingiustizia.
È stato per questa commissione che Tenco si è ucciso? Dalla lettera sembra di sì. Ma quando Dalida, prima, e Piero Vivarelli, dopo, avevano gridato a Zatterin: «Assassini, farabutti», il nuovo direttore del Radiocorriere non aveva mosso ciglio. «È una reazione del primo momento», aveva mormorato.
AI PIEDI DEL SANTUARIO
Può darsi che quella di Vivarelli e di Dalida sia stata una reazione del momento, si diceva quella notte al Savoia. Non si può certo addossare la colpa del suicidio di Luigi Tenco ai cinque giudici-consolatori.
Se avessero scelto la canzone di Bongusto o di Modugno, forse Tenco si sarebbe ucciso lo stesso protestando contro il cielo dipinto di blu (o si sarebbe sparato due giorni dopo, con la vittoria di Claudio Villa, cioè della Cetra). Tenco non doveva andare al festival se voleva protestare, perché nessuno ve l’aveva spinto, nemmeno i funzionari della Rca. Lo “scandalo” della canzone ripescata sarebbe scoppiato (e soffocato) lo stesso; come sono scoppiati, sono stati denunciati e subito soffocati altri scandali sanremesi gli anni scorsi. E sempre stato così. È appunto per questo che il gesto di Luigi Tenco non serve a nulla.
Proprio quella mattina, Ezio Radaelli, in un articolo pubblicato da un giornale romano, scriveva: “Le ultime statistiche parlano di una produzione in Italia che oscilla tra i sessanta e gli ottanta motivi al giorno, cioè quasi ventiquattromila l’anno, dei quali soltanto una mezza dozzina, non più, raggiunge e sfiora il successo. Sono motivi costruiti a freddo, come in una provetta... Una valanga di giovani e giovanissimi gettati senza sosta sul mercato per sparire subito, quasi sempre dopo il primo 45 giri...”.
Il giorno dopo è sabato, gli osservatori di costume e i critici, perfino gli editorialisti politici si domandavano in lunghi articoli se ci si può ammazzare per una canzone. Tenco aveva ancora un buon reddito, il motoscafo, la Gt-veloce, due abitazioni, ma non riusciva a inserirsi nel mondo della canzone; era un romantico, un giovane pieno di idee e progetti non realizzati, generoso e altruista, ma si sentiva tagliato fuori, trascurato dalla pubblicità. Aveva tentato la carta di Sanremo, eppure conosceva i pericoli che si corrono andando a genuflettersi ai piedi di quel santuario. Allora la sua è stata solo una crisi depressiva, finita tragicamente; la conseguenza degli eccitanti? Può anche darsi. Comunque il cantautore che per primo alcuni anni fa protestò con le sue canzoni, questa volta aveva protestato pagando di persona. Ma quanti Luigi Tenco ci sono in Italia, paese dei trecentosessantacinque festival, uno ogni giorno e in ogni località balneare?
Franco Crepax al Savoia se l’è domandato per tutta la notte se non fosse colpa dei discografici, della stessa televisione, così interessata a Sanremo. Aveva ragione di domandarselo ed era sincero. Ma che significato poteva avere il processo che il direttore della Cgd stava istruendo contro se stesso e i discografici, durante quella macabra veglia in smoking e lustrini? Erano tutti là quella notte, organizzatori e industriali, a protestare anche loro. Finalmente Tenco era riuscito a richiamare l’attenzione attorno a sé. Ma dopo poche ore non se ne sarebbe più parlato. Sgombrato il campo dal corpo del cantautore, tutto sarebbe ricominciato come prima: c’era il prestigio di Sanremo da salvare, i dischi, il collegamento eurovisivo, il festival, quelli di quest’anno e dell’anno prossimo.