Erik Hedegaard, Rolling Stone gennaio/febbraio 2014, 15 gennaio 2014
CHARLES MANSON, CONFESSIONI DI UNO
PSICOPATICO –
Nella San Joaquin Valley, a metà strada circa tra Bakersfield e Fresno, nella periferia di Corcoran, una città arida, infestata dalle mosche, sferzata dal vento e intrisa di cattivi odori, si trova la Corcoran State Prison. È qui che Charles Manson sta scontando l’ergastolo per il duplice massacro Tate-LaBianca del 1969, l’evento che ha segnato la fine dell’era Peace&love.
Manson entra nella sala visite del carcere. Non ha lo stesso aspetto di un tempo, ovviamente, quando appariva splendido con la sua criniera di capelli marroni, a volte sfoggiando un cache-col o un abito patchwork multicolore fatto a mano dalle sue seguaci, con il pizzetto ben curato e gli occhi da pazzo alla Rasputin. Oppure quando, durante il processo, mostrava tutta la sua agilità saltando fuori dal banco degli imputati per attaccare il giudice, con la matita stretta in mano, pronto a infilargliela in gola, prima di venire annientato da una sentenza di colpevolezza senza appello. Quei tempi sono finiti.
Oggi Charles Manson ha 79 anni. È un anziano con una bella corona di capelli bianchi che però ci sente male, ha problemi ai polmoni e al sorriso, con i denti rotti o scheggiati, regalo di una vita passata in carcere. Cammina appoggiandosi a un bastone e lo alza per salutare i suoi visitatori, una delle quali è una ragazza snella con i capelli scuri di nome Star. «Star!», esclama. «Questa non è una ragazza, è una stella che splende nella Via Lattea». Le va incontro con le braccia aperte e sogghigna mentre lei si avvicina. Da una piattaforma elevata due guardie carcerarie armate di manganello e spray al peperoncino osservano attentamente la coppia, senza mai perderla d’occhio.
Star ha 25 anni, è di religione cristiana battista, viene da un paese sul fiume Mississippi, è un’ottima donna di casa, si veste in modo castigato e ha uno spiccato senso dell’umorismo. Charlie è probabilmente il più celebre assassino di tutti i tempi.
Lo hanno definito l’incarnazione del Diavolo per il modo in cui è riuscito a convincere a uccidere in suo nome. Ha passato gli ultimi 44 anni in carcere e quasi 60 in totale dietro le sbarre, il che vuole dire che è stato un uomo libero per meno di 20. Non uscirà mai di prigione. Star invece vive a Corcoran da 7 anni, da quando ne aveva 19. Non è qui per Charles Manson, ma per la sua dedizione alla causa ambientalista conosciuta come ATWA, “Aria, Alberi, Acqua e Animali”. È diventata la sua più accesa sostenitrice, gestisce diversi siti web (mansondirect.com, atwaearth.com, una pagina Facebook e una su Tumblr) in cui chiede al governo di dargli un’altra possibilità e viene a trovarlo ogni sabato e domenica. Sta qui anche cinque ore e si accerta che non sia stato chiuso in isolamento o perseguitato in qualche altro modo dal Sistema.
«Sì, la gente pensa che io sia pazza», dice Star, «ma nessuno sa niente. Questo è quello che è giusto per me, questo è quello per cui sono nata». Le regole del carcere permettono un bacio all’inizio e alla fine di ogni visita, Charlie e Star si abbracciano, si scambiano un casto bacino, poi si siedono uno di fronte all’altra.
La prima cosa che noto in lui è la X (poi trasformata in una svastica) che si è inciso in mezzo alla fronte durante il processo per protestare contro il trattamento ricevuto dalla corte, un atto che poi è stato imitato dai suoi difensori e, anni dopo, dalla ragazza che c’è qui con lui oggi e che si è incisa la stessa X sulla fronte. La seconda è il suo aspetto gradevole. Nonostante abbia una certa età, Manson è curatissimo; niente peli sporgenti da orecchie o naso, niente schifezze in bocca, indossa una maglietta blu impeccabile, ben stirata e pulita. Sta benissimo. La terza è il modo gentile in cui parla, molto diverso da quello mostrato nelle interviste tv rilasciate negli anni ’80 e ’90, quando per esempio rivolgendosi a un’elegantissima Diane Sawyer in dolcevita nero e orecchini ruggiva frasi come: «Donna, sono un gangster! Io rubo i soldi». Adesso si guarda intorno e dice: «Mi piacerebbe mangiare dei popcorn». Si avvicina all’armadietto in cui i detenuti tengono delle piccole provviste di cibo, guarda dentro, sposta delle cose e poi emette un lungo sospiro di disapprovazione: «I popcorn sono finiti». «Li abbiamo mangiati l’ultima volta», dice Star.
Un istante dopo, senza che io nemmeno me ne accorga, mi tocca con un dito la punta del naso, veloce come la lingua di una serpe. Si sporge in avanti. Posso sentire il suo fiato nell’orecchio mentre mi dice: «Ho toccato tutti sulla punta del naso, amico. Non esiste nessuno al mondo che io non possa toccare sulla punta del naso». Si piega da un lato: «Rilassati, lo so cosa stai pensando». Fa una pausa: «Se posso toccarti, posso anche ucciderti». Poi mi poggia una mano sul braccio e la sfrega. Un’ora dopo stiamo parlando del sesso ai vecchi tempi. Tutte quelle ragazze in giro, qualche ragazzo, il sesso di gruppo: «Lo facevamo tutti», mi dice poggiando ancora la mano sul mio braccio e facendola scivolare nell’incavo, avanti e indietro, «non si diceva mai di no. Bisogna seguire la corrente, scivolare giù. Tutti volevano tutti». Annuisco, perché per un attimo, con la sua mano che scivola sul mio braccio, mi sembra di vedere come fosse. Inaspettatamente non mi sembra niente male seguire la corrente, anche se è quella di Charles Manson e anche se, visto che mi sta toccando, potrebbe anche uccidermi, se volesse.
Nel frattempo, Star sta organizzando un piccolo banchetto: barrette di cioccolato, torta di zucca, patatine, tacos, dolcetti alla fragola, burro di arachidi. Charlie prende una barretta di cioccolato e la butta giù con una soda. Questo è il modo in cui oggi passa il suo tempo. Così è come aspetta la fine dei suoi giorni.
Quello che la maggior parte delle gente sa di Manson lo ha letto su Helter Skelter, scritto dal suo accusatore Vincent Bugliosi, ricostruzione monumentale (600 pagine) del crimine, delle indagini e del processo che ha venduto oltre 7 milioni di copie dal 1974 a oggi (un record per un libro di cronaca nera). Un libro che fa paura, un vero shock per la società, allora come oggi. Bugliosi ha raccontato la storia così: il 21 marzo del 1967, dopo aver scontato sei anni per violazione della libertà condizionata in seguito a una condanna per aver falsificato assegni per 37 dollari, il criminale di basso profilo Charles Milles Manson, 32 anni, esce di prigione per entrare nel favoloso mondo di San Francisco in piena epoca Summer of Love. Non ha mai visto niente di simile: amore libero, cibo gratis, erba, acidi e ragazze, tantissime, molte delle quali erano solo ragazzine sbandate e sperdute, in cerca di qualcuno che dicesse: «Ti ho trovato». Quel qualcuno è Charles Manson.
Charlie suona la chitarra, ha il fascino dell’ex galeotto, un linguaggio metafisico e senza freni e le ragazze cadono ai suoi piedi. La bibliotecaria Mary Brunner, la fatina Lynette Fromme, a cui lui affibbia il soprannome “Squeaky”, la provocante ed erotica Susan Atkins e infine Sandra Good, la ragazza ricca e di buona famiglia. Nasce quella che gli accusatori chiamano “The Family”. È l’inizio della fine per Charles Manson. A un certo punto si spostano tutti a Los Angeles. Secondo Bugliosi, Charlie vuole diventare una rockstar, più di ogni altra cosa. È amico di Dennis Wilson dei Beach Boys, che sembra convinto delle sue potenzialità come musicista e ha conosciuto un produttore di grido, Terry Melcher.
Tutti fanno l’amore con tutti. Tanto amore, tanto divertimento, a parte le volte in cui, come hanno testimoniato alcune ragazze, Charlie le picchiava. Vivono tutti insieme nello Spahn Ranch, un posto usato in passato come location per film western, Charlie dice di essere la reincarnazione di Gesù e viene trattato come se lo fosse davvero. Si dice che abbia dei superpoteri ipnotici, con cui riesce a manipolare le persone. Per un certo periodo va tutto bene. Ragazzi allo sbando che non hanno mai avuto una casa ora ne hanno una. Ovunque, facce sorridenti.
Nel 1969 però cambia tutto: i Beatles pubblicano The White Album e Manson rimane completamente ossessionato da una canzone, Helter Skelter. La considera il segno di un’imminente apocalisse, una guerra tra bianchi e neri durante la quale lui e la sua gang rimarranno nascosti nel deserto, sottoterra, in un paradiso biblico, finché i neri non vinceranno la guerra e lo imploreranno di diventare il loro leader perché non sono capaci di governarsi da soli. Secondo Bugliosi, a un certo punto Manson si stufa di aspettare l’inizio della guerra e decide di scatenarla, ordinando all’ex atleta e studente modello Tex Watson, alla studentessa cattolica Patricia Krenwinkel, a Susan Atkins, ex cantante in un coro di chiesa, e a una ragazza appena entrata nella Family di nome Linda Kasabian di andare a Cielo Drive, Los Angeles, entrare in una villa abitata da gente ricca (una casa affittata anche da Terry Melcher) e «uccidere tutti, nel modo più crudele possibile». Devono anche lasciare in giro dei segni, degli indizi che facciano pensare che il massacro sia stato compiuto dalle Pantere Nere. Non si sente nemmeno un “No”. O perlomeno, nessuno risponde: “No”.
«Io sono il diavolo e sono qui per svolgere il mio compito», dice Watson entrando nella villa: 25 minuti e 102 coltellate dopo è tutto finito, almeno per quella notte. Le vittime sono l’attrice Sharon Tate, 26 anni, moglie incinta del regista Roman Polanski, il parrucchiere delle star Jay Sebring, 35 anni, lo sceneggiatore Voytek Frykowski, 32 e l’ereditiera dell’impero del caffè Folger, Abigail Folger, 25 anni. La notte dopo i killer tornano in azione, sempre su ordine di Charles Manson e con l’aggiunta nel gruppo di Leslie Van Houten, ex reginetta di scuola. Aggiungono altre 67 coltellate al conto finale, massacrando nella loro abitazione una coppia apparentemente scelta a caso, il negoziante Leno LaBianca di 44 anni e sua moglie Rosemary, 38. Dopo entrambi i massacri scrivono “porci” e “morte ai porci” con il sangue delle vittime sui muri, sulla porta e su un frigorifero.
Secondo Bugliosi, nella mente di Manson queste azioni servono a far ricadere la colpa sui neri. I bianchi cercheranno vendetta, i neri si ribelleranno e la rivoluzione potrà finalmente avere inizio. Manson la chiama “Helter Skelter”, come la canzone dei Beatles. È un impianto accusatorio contorto e strampalato, i superiori di Bugliosi vorrebbero che lo lasciasse perdere per uno più plausibile e realistico, tipo una rapina o una compravendita di droga finita male. Ma Bug, come lo ribattezza Manson, non si fa dissuadere. Concede l’immunità a Kasabian (che a quanto pare non è presente sulla scena di nessuno dei due delitti) e grazie alla sua testimonianza riesce a vendere la storia di Helter Skelter alla corte e all’intero Paese. Nel 1971 gli imputati vengono tutti riconosciuti colpevoli e condannati a morte, sentenza poi commutata in ergastolo quando lo Stato della California abolisce per un periodo la pena capitale. Susan Atkins è morta di cancro 4 anni fa a 61 anni. Patricia Krenwinkel, 65 anni, e Leslie Van Houten, 64 anni, sono detenute modello della California Institute for Woman a Chino e continuano a sperare nella libertà sulla parola. Tex Watson, 67 anni, è rinchiuso nella Mule Creek State Prison di Ione, California. Ha confessato di essere lui l’autore di tutti gli omicidi, e che le ragazze hanno infierito sulle vittime quando queste erano già morte, come se facesse molta differenza. Tutti hanno ripudiato Manson. E Bugliosi, 79 anni, dopo una lunga carriera come avvocato e autore di bestseller, si riposa nella sua casa in California, combatte contro il cancro e concede ogni tanto qualche intervista.
Nel 1970 questo giornale ha pubblicato il primo racconto completo della storia di Manson e dei suoi seguaci, un pezzo di 22 pagine intitolato L’incredibile storia dell’uomo più pericoloso del mondo. La sua vicenda è stata raccontata con un approccio più aperto e sfaccettato del solito e Manson ha avuto anche molto spazio per dire la sua. Da allora sono stati scritti molti articoli e libri, ma lui non ha mai collaborato e sono almeno vent’anni che non concede un’intervista vera e propria alla stampa. Ho contattato Star nel settembre 2012 e due mesi dopo ho parlato per la prima volta al telefono con Manson. Da allora ha cambiato idea mille volte: voleva conoscermi, altre volte assolutamente no, altre ancora mi accusava di essere solo un fantoccio: «Sei fuori di testa amico, io incontro gente come te solo per rapinarli. Sei solo uno schiavo, una pedina mossa da altri, e io con le persone come te non parlo».
Lo scorso settembre avevo appuntamento con Star, Manson aveva detto che non voleva vedermi. All’ultimo ha cambiato idea, abbiamo parlato e lui mi ha chiesto di tornare il giorno dopo. Nel corso degli anni la sua faccia e il suo nome sono rimasti impressi nell’immaginario pubblico, a prescindere dalla sua stessa volontà. I suoi occhi spiritati sono finiti sulle t-shirt e nella replica di un episodio di South Park intitolato Buon Natale Charles Manson, la sua storia ha ispirato un’opera lirica e un musical, ed è stata analizzata e interpretata da intellettuali e uomini di cultura. Nel 2010 il teologo David R-Williams ha scritto: «Noi, la nostra cultura collettiva, guardiamo negli occhi di Manson e vediamo in quelle cavità oscure le nostre paure più profonde, la paranoia di cosa può succedere se ci spingiamo troppo in là. È il mostro della foresta, l’ombra nella notte, la bestia che si nasconde in agguato nella Terra Incognita, oltre la fine della mappa». Il punto è che, come quella bestia in agguato, lui è sempre qui, con noi. Nel 1988 in un’intervista televisiva Geraldo Rivera lo ha definito: «Il prodotto dell’incubo di una nazione». E se non lo era prima che i media si interessassero a lui, sicuramente lo è da allora.
E ora, ecco Charlie in prigione, da molto tempo, a ripetere sempre le stesse cose: lui non ha detto a Tex di uccidere quelle persone («Non ho spinto un cazzo di nessuno a fare niente»), è innocente («Non ho mai ucciso nessuno!»), non c’è mai stata una Family («Se l’è inventata Bugliosi»), lui non era il leader («Siamo tutti liberi, io non sono il capo di nessuno»), Helter Skelter non era quello che ha descritto Bugliosi («Non ha nessun senso!»), gli è stata negata ingiustamente la possibilità di difendersi da solo durante il processo («Era un mio diritto») e il governo gli deve 50 milioni di dollari («E tutto l’Hearst Castle, come risarcimento per 45 anni di cazzate»), e comunque tutto questo non è nulla in confronto a quello che stiamo facendo all’aria, agli alberi, all’acqua e agli animali, la cui salvezza ogni tanto cita come ragione sufficiente per quello che è successo a Cielo Drive e nella casa dei LaBianca, a prescindere dal suo coinvolgimento.
«Ti spiego come funziona», dice, «prendi un bambino e...» qui dice una cosa terribile su cosa potresti fare a quel bambino, orrenda oltre ogni immaginazione «... e muore». Aggiunge un’altra cosa altrettanto oscena, poi continua: «Lo so cosa stai pensando, posso sentire il tuo cervello che si muove avanti e indietro, ma cosa succede quando quel bambino muore?» Inspira ed espira profondamente, un respiro dopo l’altro. «Avrebbe potuto farlo un cane, uccidere per sopravvivere. Quindi perché fu sbagliato farlo a quelle persone?». È questo che ti fa capire che il carcere è l’unico posto per lui, mentre ti auguri che non allunghi mai più le mani verso di te.
Le visite a Charlie sono sempre molto impegnative per Star, lei se la prende comoda guidando le due miglia che separano il carcere da casa sua. Prima con lei c’era anche un uomo alto e dall’aspetto macilento e spettrale di nome Gray Wolf, 64 anni, un ex seguace di Manson dai tempi dello Spahn Ranch, anche lui con una X incisa sulla fronte. Qualche tempo fa, però, Gray è stato arrestato per aver tentato di procurare un telefono cellulare a Manson e ha perso il diritto alle visite. Quindi ora l’unica compagnia di Manson nel weekend è questa ragazza magra e delicata.
La ragione per cui lei è qui è praticamente la stessa che al tempo ha portato molte ragazze allo Spahn Ranch. Una ribellione contro tutto quello che avevano intorno. Star è cresciuta sul fiume Mississippi vicino a St. Louis in una famiglia molto religiosa, ha sempre avuto una passione per la sit-com I Love Lucy e non è mai andata d’accordo con i suoi amici: «Pensavano che stessi diventando una hippie. Fumavo marijuana, prendevo funghi, la domenica non andavo in chiesa e non volevo sposare un predicatore. I miei erano cristiani battisti e volevano che io fossi la moglie di un predicatore». Per tenerla lontana dai guai, i suoi la chiudevano a chiave in camera, dove ha passato buona parte degli anni del liceo. Come Charlie, anche Star ha trovato il modo di sopravvivere all’isolamento: «Mi sono abituata a stare sola, così ho smesso di sentirmi sola».
Un giorno un amico le fa leggere una cosa che Manson ha scritto sull’ambiente. Non ha mai sentito parlare di lui, ma le piace quello che legge: «L’aria è Dio, perché senza aria non potremmo vivere». Iniziano a scriversi. Star mette da parte 2.000 dollari lavorando in una casa di riposo e nel 2007 riempie uno zaino e prende il treno per Corcoran. Charlie la chiama Star, come un tempo chiamava Squeaky “Red” e Sandra “Blue”.
Il posto dove vive non è grande, non è molto illuminato ed è arredato in modo semplice. In un angolo ci sono una chitarra e la custodia di un violino. Niente tv. A una parete, la famosa foto di Charlie allo Spahn Ranch con un cappello di feltro piegato da un lato e un corvo sul braccio. Un’immagine da duro, il tipo grezzo che sembra uscito dall’era delle Dust Bowl e che sa addomesticare gli uccelli. («Siamo diventati compagni di strada e siamo scappati insieme», dice Manson. «Non gli ho dato un nome, era solo un corvo». Per qualcuno invece si chiamava Devil). Sul tavolo c’è il computer dove Star passa ore tentando di riabilitare l’immagine di Charlie agli occhi dell’opinione pubblica. Si arrabbia molto quando legge che Charlie è alto solo un metro e 57 (secondo lei è almeno 5 cm di più): Bugliosi lo ha scritto apposta nel suo libro per umiliarlo ulteriormente. È basso, ma non così tanto.
Delle ragazze della Famiglia solo due credono ancora in Charlie: Sandra Good, 69 anni, e Squeaky Fromme, 65. Di Sandra non si sa nulla, anche se ultimamente è circolata una sua foto sorridente in sella a un mulo nel Grand Canyon. Squeaky invece nel ’75 ha tentato di uccidere il presidente degli Usa Gerald Ford ed è stata rilasciata nel 2009. E stata a lungo la preferita di Manson: «La piccola Lynette», dice Charlie, «non ho mai incontrato una più sincera di lei. Non mi ha mai voltato le spalle, ha fatto 34 anni di carcere e non ha tradito la sua promessa. Un uomo non riuscirebbe mai a farlo». Adesso però c’è Star e molti della tribù virtuale di Manson si chiedono in Rete se non abbia preso il posto di Squeaky. Star non presta attenzione ai commenti, preferisce passare il tempo in Rete a ordinare cose che ogni tre mesi è autorizzata a portargli in carcere, tipo noccioline tostate, semi di girasole e di zucca, barrette di proteine, zuppa di verdure, vitamine, cracker, pastiglie per la tosse, tè, magliette, calze, rasoio elettrico, corde per la chitarra. Ogni volta che lui viene mandato in isolamento deve liberarsi di tutto quello che ha nella sua cella se non vuole che venga sequestrato per sempre, e quindi spedisce le sue cose ai sostenitori, molti dei quali sono collezionisti in cerca di un affare. Ben, per esempio, che possiede un paio di ciabatte infradito di Manson e le vende a 5000 dollari. Ha avuto anche il permesso da Manson di vendere alcune sue vecchie registrazioni, ma accusa Star e Gray’Wolf di aver sabotato i suoi affari, e di essersi appropriati di una sedia a rotelle da 4.500 dollari che ha mandato a Charlie. «È una guerra», ha scritto sul suo Facebook, «ed è appena cominciata». Star scuote la testa: «È andato fuori di testa perché Charlie ha smesso di chiamarlo. Non vuole mollare. E poi saremmo noi i cattivi. Questo è il genere di problemi che abbiamo, la gente è strana».
Charlie si sveglia la mattina presto, esce dalla sua cella di cemento grigio, fa colazione, prende il suo pranzo al sacco, torna in cella, dorme, mangia, dorme ancora, fa quattro passi avanti e indietro, a volte una partita a scacchi, va a cena, rientra in cella entro le 20.45, ma non ha un orario fisso in cui deve spegnere la luce. «La mia cella mi piace. È come quella canzone che ho scritto, l’ho intitolata My Cell, ma i Beach Boys l’hanno cambiata in In My Room». E una rivendicazione che fa spesso anche se suona ridicola, perché In My Room è stata pubblicata nel ’63, quattro anni prima che lui uscisse di prigione. Non si ferma davanti a niente, neanche quando risulta ovvio che è in malafede. «Come tutte le mie canzoni parla del paradiso, che per me è proprio qui, sulla Terra. Vedi, il mio migliore amico è in quella cella, io sono là. Mi piace». Nonostante ciò, si lamenta continuamente del sistema di ventilazione, giura che l’aria condizionata lo sta uccidendo. Ha paura che le guardie possano mettergli qualche schifezza nelle scarpe, solo per dargli fastidio, dice che deve sempre stare all’erta. Non è mai stato in mezzo agli altri detenuti, è sempre stato rinchiuso in qualche zona protetta, dove si suppone che sia più difficile per gli altri raggiungerlo, soprattutto per chi è in cerca di fama.
Nel 1984 in un’altra prigione, un detenuto gli ha rovesciato addosso un solvente per vernici e gli ha incendiato i capelli. Al momento ha a che fare solo con 15 detenuti, tra cui Juan Corona, che nel 1971 ha ucciso 25 persone, Dana Ewell che ha commissionato il massacro della sua stessa famiglia nel ’92, Phillip Garrido, uno stupratore che ha rapito l’11enne Jaycee Lee Dugard e l’ha tenuta prigioniera per 18 anni, e Mikhail Markhasev, condannato per aver ucciso il figlio di Bill Cosby, Ennis. Manson non guarda molta tv, ma gli piace Barney Miller, Gunsmoke e Sesame Street in spagnolo. Suona la chitarra, a volte dà qualche consiglio a Corona, il serial killer. «Non sono un maestro, ma gli mostro qualche accordo e progressione armonica». Gli piacerebbe ascoltare qualche vecchio disco dei Doors o dei Jefferson Airplane se riuscisse a far funzionare il suo lettore cd. A volte deve lasciare la cella per l’ispezione con i cani in cerca di merce di contrabbando. E l’ultima volta i cani non hanno trovato niente, ma hanno lasciato i loro bisogni per terra, per la felicità di Manson.
Riceve migliaia di lettere, più di ogni altro detenuto negli Usa. A volte risponde così: «Il leader di una setta di hippy me lo ha fatto fare». In carcere ha commesso in totale 108 infrazioni. Nel 2011 è stato beccato con un’arma rudimentale, l’asta appuntita di una lente di ingrandimento, ed è stato in isolamento per un anno. Nel pomeriggio di solito fa un giretto nella zona dei telefoni. Ogni conversazione è registrata, ma può fare più o meno le chiamate che vuole, tutte a carico del destinatario e lunghe al massimo 15 minuti. Ne fa migliaia. Lo so, perché da mesi sono io quello che chiama più spesso. Mi chiama quando sono al cinema, mentre sono in macchina, quando sono a un cocktail, mentre faccio una di quelle tante cose che lui non farà mai più. Alcune delle ultime telefonate le ha iniziate così: «Ciao! Ciao! Sei pronto? Ok, ci sono sette scalini che separano la camera a gas della reclusione dalla camera a gas del rilascio», «Mi sono dimenticato, sei tu arrabbiato con me o sono arrabbiato io con te?», «Vuoi venire a dondolarti con me su una stella?», «Perché non vai avanti e dici cosa preferisci? Io ti seguo, ci vediamo più tardi in spiaggia»... La maggior parte delle volte vuole parlare dell’ambiente e di quello che dovremmo fare per salvarlo («La fine è vicina, baby»). Una volta mi ha spiegato che secondo lui è giusto uccidere per avere più aria da respirare: «Chiunque venga ammazzato, è il volere di Dio. Senza delle morti siamo spacciati». Fa una pausa, «Magari puoi lasciare fuori questa cosa dal tuo articolo. Pensaci e poi chiediti: “Come può funzionare per me?”». All’inizio non ho dato molto peso a queste cose, c’è voluto del tempo per farmi capire cosa stava suggerendo. Ci sono volte in cui sembra solo molto solo («Nessuno viene a trovarmi tranne Star»). Altre, mi spiega che rispetta Neil Young perché ha detto che il suo stile musicale non era male: «Non mi ha preso in giro, non ha cercato di rubarmi le canzoni come hanno fatto Zappa e tutti gli altri. E un tipo a posto, schietto». Oppure tenta di fregarmi: «L’altra volta quando ci siamo sentiti mi hai promesso la metà». «La metà di cosa?», «Di qualunque cosa tu possa darmi», «Beh, la metà di niente è niente», «Sì, ma metà di metà è sempre metà. Uno e uno è sempre uno. Ti sei confuso dolcezza. Non sai che sei mia moglie? Ti ho riconosciuto». Cambio argomento, nell’unico modo possibile con lui, bruscamente, e gli dico che ho sofferto di orticaria. Si anima e mi suggerisce di curare le vesciche con l’aceto di mele: «Ho avuto un fungo ai piedi, le ho provate tutte finché Star non mi ha dato l’aceto di mele. E miracoloso!». Poi si arrabbia per qualcosa e comincia a gridare: «Sono un fuorilegge, un gangster, un ribelle, un desperado, e non sparo colpi di avvertimento in aria!», il che mi fa sempre sorridere, perché è una cosa abbastanza comica da dire di se stessi.
Non vorrei sapere niente della sua vita sessuale, ma lui me la racconta lo stesso: «Credi che sia troppo vecchio per farmi una sega? Lo so, tu pensi: “È troppo vecchio per scoparsi il cuscino”. Non è vero, sono ancora attivo, sono ancora io».
Non prova nessuna simpatia per le vittime degli omicidi Tate-LaBianca, specialmente per Sharon Tate: «È una star di Hollywood. Quante persone ha ucciso nei suoi film? Era veramente così bella? Ha compromesso il suo corpo, se era davvero una creatura così fantastica cosa ci faceva a letto con un altro uomo? Che merda è questa?».
E alla fine tira fuori il vecchio travestimento da Gesù Cristo, che funziona sempre, e dice: «Non credo che tu capisca la gravità della situazione. Come puoi intervistare Gesù, mentre sta morendo sulla croce? Non chiederti perché hanno crocifisso Gesù, chiediti perché lo stanno crocifiggendo adesso». Io lo prendo in giro e lui diventa subito aggressivo; «Quando sarai faccia a faccia con me sarai solo. Non me ne frega un cazzo di chi sei, io ti ammazzo. Ti faccio finire sottoterra. Cosa vuoi fare, stupido idiota? Chi ti proteggerà, tesoro?». È così che passa i suoi giorni, e lo farà fino alla fine. «Devo andare. Ci sentiamo più tardi».