Jonah Weiner, Rolling Stone gennaio/febbraio 2014, 15 gennaio 2014
STORIE DALL’ALDILÀ
“NEW” È NATO qualche anno fa, quando Paul McCartney ha cominciato a buttare giù qualche idea a Hog Hill Mill, il suo studio immerso nella campagna inglese, a 20 minuti dalla fattoria ecologica in cui vive per la maggior parte dell’anno. Ma solo quando si è messo alla ricerca di un produttore, il lavoro è iniziato davvero. Ci sono stati dei momenti nel corso della sua carriera, in cui McCartney ha sentito il bisogno di lavorare con altri musicisti. Altre volte, invece, voleva chiudersi in una stanza solo con se stesso a tirare fuori nuove idee: McCartney (1970) e McCartney II (1980) li ha fatti così, il secondo in particolare lo ha registrato rintanato in una fattoria in Scozia con una pila di sintetizzatori e un’inesauribile provvista di marijuana. «All’inizio scrivevo da solo, perché non avevo nessuno con cui scambiare idee», spiega. «C’ero solo io, chiuso nella stanza della piccola casa dove sono cresciuto a Liverpool. Poi ho incontrato John e ho scoperto che anche lui faceva lo stesso e abbiamo iniziato a comporre insieme. Praticamente tutto quello che abbiamo fatto con i Beatles è nato così, non c’era motivo di scrivere da soli. Quando è arrivato il successo, però, non eravamo più uniti tutto il tempo. Non dividevamo più la stessa stanza d’albergo, io vivevo in un posto e lui in un altro, e quindi abbiamo ripreso a lavorare da soli. Conosco tutti e due i metodi e sono tutti e due validi».
Per New, invece, Paul McCartney ha voluto socializzare. La sua prima tappa è stata lo studio londinese di Paul Epworth, il giovane produttore e compositore che ha lavorato a 21 di Adele, un album che Paul, come altri milioni di persone, ha adorato. Si è presentato a mani vuote: «Mi sono chiesto: “Ok, che devo fare qui?”. Sono sempre aperto a ogni tipo di suggerimento, l’unica cosa che non voglio è annoiarmi».
Epworth è stato molto propositivo, ha messo in piedi un ritmo rock muscolare e intenso e gli ha detto che quelli erano il tempo e l’energia che doveva seguire. «Ho pensato che fosse una buona idea, facciamo una cosa viva, cerchiamo di non essere troppo profondi e seri», racconta. «Lui è saltato dietro a una batteria, io mi sono seduto al pianoforte e abbiamo buttato giù un po’ di basi; io ho aggiunto gli accordi, gli ho dato un po’ di struttura e ho iniziato a costruire i testi. Di solito scrivo melodia e testo insieme: seguo il treno dei pensieri, e vengono fuori tutti e due nello stesso momento. Ma quando improvvisi non ci sono parole da seguire, non hai chiaro cosa voglia dire la canzone. C’è solo la sensazione, l’idea di come potrebbe suonare una linea vocale, quindi cominci a cantare cose tipo: “Wada bada bada wado biddo woooo” finché non trovi la melodia giusta. Poi scegli le parole che vanno bene per quella struttura». Da questa session è venuta fuori Save Us.
Il secondo produttore che ha incontrato è stato Ethan Johns: «Ha fatto i dischi dei Kings of Leon, sapevo che era un musicista autentico, molto concreto. Gli ho portato Hosanna, una ballata acustica molto tenera, quasi incerta: “Ho scritto questa”. E lui: “Perché non me la canti?” Io l’ho fatto, e poi ho chiesto: “Devo farla un’altra volta? Dobbiamo metterla a posto?”. E lui: “No, l’hai fatta benissimo, va bene così”. E uno che lavora in questo modo grezzo, vuole che la canzone venga fuori senza pensarci troppo». Gli ultimi due incontri sono stati con Mark Ronson (il produttore di Amy Winehouse, che McCartney ammira molto e che ha anche chiamato a mettere i dischi alla sua festa di matrimonio con Nancy Shevell) e con Giles Martin, il figlio di George Martin, con cui aveva già lavorato nel 2006 sulla produzione musicale di Love, lo show del Cirque du Soleil basato sulle musiche dei Beatles. Alla fine, invece di sceglierne uno, li ha chiamati tutti e quattro, dividendo tra loro la scaletta del disco.
C’era anche un altro collaboratore in studio, mi dice McCartney, uno che è con lui da almeno qualche decennio: «Quando non sono sicuro di una cosa la passo a John. Lui mi dice: “No amico, questo non lo puoi fare”. “Va bene, hai ragione. E se facessi così?”. “Molto meglio”. Insomma, ne discuto con lui come se fosse ancora con me. È una cosa molto importante, lo faccio spesso, è un’abitudine che non voglio perdere».
Il giorno dopo il suo concerto per il Jimmy Kimmel Live!, McCartney scatta le foto per Rolling Stone, poi monta su un Suv e si fa portare al Beverly Hills Hotel per l’ora del tè. È andato molto d’accordo con la fotografa, talmente tanto che non riesce a smettere di pensare a lei: «Molto divertente!», dice. «Era una grande, molto cool. Se fossimo negli anni ’60 ci avrei sicuramente provato. Probabilmente nelle foto si vede. Ma adesso sono un nonno e queste cose non le faccio più», dice con un sorriso maligno. «Però ci penso, so che lei voleva questo, mi ha chiesto di essere divertente e di fare un po’ il figo. E io le ho detto: “Eccomi qui, baby, sono io”».
Gli ha sempre dato fastidio il cliché secondo cui nei Beatles John era il genio creativo sregolato e lui la spalla, quello buono e con le fossette carine. C’è un fatto che non va dimenticato: quest’uomo ha scritto tonnellate di canzoni che parlano di sesso: «Direi che sono abbastanza ossessionato dall’argomento», dice. Ricorda quando da ragazzino a Liverpool faceva di tutto con i suoi amici per tirare su i soldi e comprare qualsiasi giornale che avesse foto di donne nude. «Andava bene qualsiasi cosa», ricorda. «Ce n’era uno che si chiamava Health & Efficiency, che titolo affascinante! Era una rivista che parlava di nudismo e naturismo, ma a noi interessavano solo le foto di donne nude. Una volta ho fatto anche il baby-sitter per guadagnare qualcosa e, mentre ero solo in casa con il bambino, mi sono messo a guardare nella libreria dei genitori. C’era un manuale di educazione sessuale, una cosa che a casa mia non c’era. Evidentemente erano dei genitori molto liberali, anche se non mi ricordo chi erano. L’ho aperto e ho visto cose come il Monte di Venere che hanno incendiato all’istante la mia fantasia di adolescente. E non è cambiato molto da allora ». Il sesso è un tema che nel corso degli anni ha preso piede nelle sue canzoni, da Why Don’t We Do It in the Road? che parla di accoppiarsi allegramente in pubblico a Eat at Home del 1971 o Nod your Head del 2007, facilmente interpretabile come un fervente omaggio al sesso orale, fino a qualche canzone dell’ultimo album New. «Nod your Head non è stata scritta con quel significato, ma ovviamente è una canzone che si presta al doppio senso, è una supposizione ragionevole», dice McCartney timidamente. «Se ci fosse un processo contro di me per perversione sessuale, quella sarebbe sicuramente una prova. Ma io negherei con forza!».
Arriviamo all’hotel in cui McCartney ha alloggiato quasi tutte le notti trascorse a Los Angeles. Entriamo nella Polo Lounge e ci troviamo davanti metà dei camerieri del ristorante: «Bentornato Mr. McCartney». In un angolo c’è un chitarrista, l’intrattenitore musicale della serata, che armeggia con i cavi dell’amplificatore prima di lanciarsi in una serie di cover orecchiabili di Otis Redding e U2. «Anch’io l’ho fatto un paio di volte», dice McCartney con aria fraterna. Ordina tè verde e una bottiglia di Evian. Non fuma più erba, beve ancora qualche volta, ma oggi ha prenotato un massaggio e vuole essere pulito: «Mi piacerebbe un drink, ma poi il massaggio non avrebbe lo stesso effetto e me ne pentirei», dice. A parte i massaggi pomeridiani, mi spiega che non si rilassa facilmente. Sembra incapace di dormire sugli allori, l’inattività lo agita parecchio.
Quando i Beatles si sono sciolti, ha sofferto di depressione. Stava a letto per giorni, senza farsi la barba e bevendo troppo. Il suo unico conforto era la moglie Linda Eastman. «A un certo punto, mi sono chiesto: “Vuoi continuare a stare lì senza far niente o vuoi fare ancora musica?”. Ho preso in mano la chitarra, da solo a casa e Linda mi ha detto: “Oh, non sapevo che fossi capace di suonare la chitarra”, poi mi sono seduto alla batteria: “Oh non sapevo che fossi capace di suonare la batteria”. Alla fine ho ricominciato a suonare, principalmente per fare bella figura con Linda. Volevo farle vedere che ero ancora utile».
Questa è anche la ragione per cui ancora oggi, a 70 anni suonati, Paul McCartney fa concerti che durano più del film Lo Hobbit, pubblica dischi e si mette molto in discussione. Forse è il fantasma di Lennon o un’altra voce interiore che gli dice di non fare cazzate: «Ma ho sempre un critico in testa. Non smette mai, e parla sempre allo stesso volume. Mi mantiene con i piedi per terra, non riesco a rimanergli indifferente. Non voglio compiacermi o pensare di essere grande. Mettiamola così: ok, sono uno figo, me lo dicono tutti. Ma mi fermo continuamente a pensare se quello che sto facendo è valido oppure no. Ho avuto molto successo, molti premi, ma per qualche ragione non ho una sala dei trofei a casa mia. La gente che mi viene a trovare mi chiede sempre: “Dove sono i dischi d’oro?”. Non li ho, non voglio sentirmi appagato. D’altra parte, mi piace pensare di essere grande, anche perché se no quando potrò finalmente bearmi dei miei successi? Quando morirò probabilmente dirò: “Cazzo, avrei potuto prendermi una settimana di autocompiacimento!”».
Lavorare gli procura piacere, almeno quanto rivivere gli episodi del passato. Ha una memoria formidabile, si ricorda di quando da ragazzino a Liverpool giocava con gli amici scambiandosi i pacchetti di sigarette vuoti, un gioco che ha ispirato uno dei testi più nostalgici di New: «Vivevo al capolinea dell’autobus, i pacchetti di sigarette erano la nostra versione delle figurine di baseball. Strappavi la parte davanti, facevi un mazzo e lo scambiavi con i tuoi amici. L’autobus partiva dal distretto finanziario di Liverpool e attraversava tutta la città fino al mio quartiere, dalla zona dei ricchi alla zona dei poveri. Tra i sedili trovavi tutti i tipi di sigarette, quelle dei lavoratori, quelle del ceto medio, quelle dei ricchi, che valevano moltissimo. Passing Clouds, Russian Sobranie, poi le Craven “A”, le Senior Service e le Player’s Navy Cut, fino alla marca preferita dai lavoratori, le Woodbine. Le conoscevamo tutte».
Ricorda anche le lunghe passeggiate nel verde a Dungeon Lane, nella zona sud-est di Liverpool, con in mano una copia di un libretto dedicato agli uccelli della serie Obseruer’s Books: «Adesso c’è l’aeroporto, ma al tempo era tutta campagna incontaminata e si vedevano delle cose bellissime. Per esempio, le allodole che si alzavano in volo. Le hai mai viste? E una cosa bellissima, volano cantando», dice fischiettando. «Volano alte, circa 50 metri, sempre in linea retta e senza smettere mai di cantare. Poi scendono in picchiata e planano da qualche altra parte. E sai perché fanno così? Per sviarti e farti allontanare dal nido. Era uno spettacolo affascinante; quando ho scritto Blackbird probabilmente stavo pensando a quell’immagine. Tutte queste esperienze sono come nutrimento per il cervello, dopo essere rimaste immagazzinate lì per tanto tempo. Sono cresciuto raccogliendo informazioni sulla natura, la musica, la società, le persone e osservandone la meraviglia. Ho sempre avuto questo senso di meraviglia per le cose, ce l’ho ancora». Lo ritrova nelle canzoni vecchie e anche in quelle nuove, dice. Avrà cantato Yesterday e Blackbird miliardi di volte, ma ogni volta, dice, scopre un nuovo significato o un nuovo mistero: «Sarebbe logico non sopportarle più, e mi aspetto che prima o poi succeda, ma finora non è andata così. Cerco di suonare la canzone senza sforzo: c’è una struttura da seguire e delle parole da inserire a tempo con la musica, e cerco di fare tutto nel modo giusto. A un certo punto mi ritrovo a considerare questa canzone scritta da un ragazzo di 20 anni, come se non fosse mia. Non c’è nulla che io faccio con il pilota automatico: invece di farmi prendere dalla noia, trovo sempre il modo di guardare un brano da fuori e chiedermi: “Cosa vuol dire questa canzone? Perché l’ho scritta?”».
Il mazzo di pacchetti di sigarette non ce l’ha più, oggi colleziona memorabilia dei Beatles e opere d’arte: De Kooning, Picasso, Philip Guston. Il titolo di On My Way to Work, uno dei pezzi di New, gli è venuto in mente sfogliando un libro di Damien Hirst: «Ero in cerca di ispirazione, aprivo qualsiasi libro mi trovassi davanti e speravo che il primo paragrafo avesse una frase perfetta per una canzone». Per la copertina del disco ha convocato il suo team di creativi, formato tra gli altri dal marito di sua figlia Stella, Alasdhair Willis e da una coppia di nome Rebecca e Mike: «Gente piena di idee, tipo studenti fuori di testa», dice. Hanno tirato fuori un design molto elegante, il titolo dell’album riprodotto con nove tubi fluorescenti, un omaggio allo scultore minimalista Dan Flavin. «Mi piacciono le sue opere, non ne ho mai comprata una, ma è bello vederle esposte in una galleria d’arte». Altri artisti che ammira? Yoko Ono. «Lei è veramente forte». Hanno lavorato insieme al progetto Love con Ringo Starr e Olivia Harrison e, dopo anni di recriminazioni e reciproche amarezze, sono andati molto d’accordo. «Il tempo, la grande medicina! Mi sono detto: “Se John la amava così tanto ci deve essere un motivo, lui non è mica uno stupido”. Cosa vuoi fare? Vuoi tenere il muso per una cosa che non ha mai avuto senso? Eravamo arrabbiati perché i Beatles si stavano sciogliendo, le cose erano cambiate, c’era una donna in studio, e non era mai i successo prima. John voleva che Yoko fosse lì, e noi tre ce la siamo presa a morte. Ma ho dovuto risolvere la cosa, mi sono detto: “Vediamo come va”, e siamo andati d’accordo nel momento esatto in cui ho deciso che non ce l’avevo con lei». Più parla del futuro, più McCartney pensa alla riconciliazione, al perdono, a mettere fine ai vecchi rancori. Con Yoko Ono, con John Lennon, con chiunque. «Penso sempre a quello che mi direbbe George: “Paul, non vuoi lasciare in giro nella tua vita queste cose”». C’è un limite però. Gli chiedo se ha mai pensato di perdonare Mark David Chapman (l’uomo che l’8 dicembre 1980 ha sparato a John Lennon uccidendolo, ndr). Inspira profondamente. Forse non c’è tempo per rispondere adeguatamente a questa domanda, aggiungo. Ma lui risponde: «Sì che c’è, la risposta è no. Quella è un’azione compiuta da un imbecille totale. Non è una di quelle situazioni in cui non vai d’accordo con qualcuno e litighi; è qualcosa di molto più grave e qualunque cosa sia stata, malvagità o follia, secondo me è imperdonabile. Penso che potrei perdonare chiunque, ma non vedo perché dovrei perdonare lui. E una persona che ha fatto una cosa completamente folle e definitiva, perché dovrei gratificarlo con il mio perdono?». Si ferma e chiede: «Vuoi uno shot di tequila?». Il tè verde è buono, ma forse non è adatto per questo momento. «Forza, facciamolo», dice Paul, chiama il cameriere e in un attimo arrivano due bicchieri di Patron, e al diavolo il massaggio. «Alla nostra, salute e felicità», dice regalandomi un momento da ricordare. Buttiamo giù lo shot in un sorso, lui posa il bicchiere sul tavolo e dice: «Hi-yahh! Oh, baby».
McCartney ha una casa a Los Angeles da queste parti, ma passa la maggior parte del tempo in Inghilterra per stare vicino a sua figlia Beatrice, 9 anni, di cui divide la custodia con la sua ex moglie, Heather Mills. Beatrice è diventata un fondamentale banco di prova delle nuove canzoni. Quando ha preso in mano per la prima volta il mandolino qualche tempo fa, ha cominciato a suonare un riff circolare molto vivace, che si è poi trasformato nel singolo Dance Tonight: «Battevo il tempo con il piede, cantavo e suonavo e lei è corsa nella stanza ballando», ricorda. «E io ho detto: “Wow, funziona! Ecco la prova!”». Tutta la sua agenda di impegni, comprese le registrazioni e i concerti, ruota intorno a Beatrice. Gli piace guardare con lei i cartoni animati, dai vecchi film della Disney a quelli della Pixar.
Intanto sta portando in tour per il mondo il nuovo album. E sta pensando a qualcosa di nuovo per il palco: «Quando ho deciso che il titolo dell’album sarebbe stato New, ho avuto un’idea, una piccola visione: una mattina, appena sveglio, io davanti a un bosco con la mia camicia a quadri, un po’ in versione boscaiolo. Solo che di fianco a me, con la mano sulle mie spalle, c’è un robot, un tipo lucido e brillante. Sto lavorando a questa idea, di avere un grosso tipo luccicante sul palco, mi piace pensare di avere un grande amico che in realtà è un robot». Il modello di riferimento è Il gigante di ferro, uno dei cartoni animati preferiti da lui e Beatrice. Ha commissionato il robot allo stesso studio di creativi che ha realizzato i pupazzi della versione teatrale di War Horse: «Perché mai dovrei costruire un robot? Solo perché mi sono immaginato in una foto con a fianco un robot? Eppure è proprio così che funziona: prima hai un’idea, poi cerchi di realizzarla. Ti viene in mente una canzone, cerchi di darle forma e poi la suoni». Riflette per un attimo, poi aggiunge: «Il concetto è l’idea stessa di novità. Io sono un amante della natura, uno che vive all’aperto e ama passare il tempo in mezzo ai boschi», sorride. «Ma ho questo amico che rappresenta la modernità. Anzi, in realtà è il futuro!».