Ugo De Siervo, La Stampa 14/1/2014, 14 gennaio 2014
DALLA CONSULTA FORZATURE IN BUONA FEDE
La lettura della sentenza n.1 del 2014, mediante la quale la Corte costituzionale ha fatto venir meno la legge elettorale del 2005 ed ha provvisoriamente introdotto un sistema proporzionale per l’elezione di Camera e Senato (un sistema certamente non voluto dal legislatore da almeno trent’anni!), conferma in sostanza i giudizi già espressi sulle luci e le ombre di questa importante decisione, quali si deducevano dal noto comunicato stampa.
Alcuni passaggi della sentenza cercano opportunamente di escludere letture catastrofiche dei suoi effetti: penso, in particolare, alla decisa ed opportuna riaffermazione che questa sentenza non mette in gioco né la legittimità dell’attuale composizione delle Camere né la legittimità degli organi e degli atti del nostro sistema istituzionale.
Non è certo dubbia la scelta di dichiarare illegittimi i premi di maggioranza per i partiti che conseguono più voti alla Camera o nei vari collegi elettorali per la designazione dei senatori: qui la Corte ha buon gioco a denunciare come assolutamente irragionevole l’attribuzione di premi eccessivi a liste di cui non si determina la soglia minima da conseguire.
Al tempo stesso, però, non solo emergono alcune forzature operate dalla Corte per giungere ad eliminare infine il pessimo sistema elettorale prima esistente, specie modificando in modo rilevante i criteri utilizzati per ammettere il giudizio di costituzionalità (ma è questione alquanto specialistica, che non si può trattare in questa sede), ma soprattutto si riconosce che la legislazione residuata dopo le demolizioni operate dalla Corte è applicabile, in quanto sistema decisamente proporzionalistico nel quale l’elettore dovrebbe poter esprimere una preferenza fra i diversi candidati, con qualche problema. La Corte, infatti, deve riconoscere che per far funzionare davvero il sistema prodotto dalla sentenza, occorrerebbe apportare alcune modificazioni alla legislazione rimasta in vigore, prevedendo, ad esempio, come e dove esprimere la preferenza o come prevedere la graduazione finale degli eletti. La Corte qui se la cava suggerendo di interpretare evolutivamente la legge residuata od addirittura utilizzando il potere regolamentare, ma certo questo suo evidente imbarazzo nel dare questi suggerimenti conferma l’opinabilità della sua decisione relativa al fatto che in sistemi con lunghe liste di candidati occorre restituire all’elettore il potere di esprimere una sola preferenza fra i diversi candidati.
Ma perché una e non due o tre, se le liste dei candidati sono davvero tanto lunghe, e se quindi l’espressione di una sola preferenza potrebbe essere sostanzialmente inefficace in tanti collegi elettorali ? Qui, in realtà, si ha la riprova pratica che la Corte, certo in buona fede, si è impropriamente avventurata nell’area delle scelte tipicamente politiche, che in quanto tali non possono che spettare al Parlamento.
C’è davvero da augurarsi che il Parlamento attuale, che non sembra incontrare in questa sentenza limiti particolari alla sua discrezionalità legislativa (purché la ricerca ad ogni costo di forti e sicure maggioranze non spinga a nuove esagerazioni ipermaggioritarie) riesca a vincere l’incredibile incapacità attuale dei gruppi parlamentari di varare una legge ragionevolmente maggioritaria. Altrimenti, il rischio effettivo è di trovarsi improvvisamente a votare in un sistema accentuatamente proporzionalistico e per di più neppure particolarmente funzionale.